Petrolchimica, affari e discariche
Nell'Isola chi inquina non paga e continua a fare soldi sulle spalle della Sardegna e dei sardiIn Sardegna e non solo si comprò tutto o quasi. Giornali, squadre di calcio e pallacanestro. Politica e banche ai suoi piedi, così come i giudici chiave del processo del secolo. Enrico Cuccia, il padre padrone di Mediobanca, che lo detestava, per irriderlo, lo aveva soprannominato il Clark Gable della Brianza. All'attore americano gli assomigliava per davvero.
Baffetto da sparviero, gelatina Linetti a manetta sui capelli scolpiti in un viso beffardo da incallito affabulatore. Lui, Angelo Vittorio Rovelli, in arte Nino, aveva costruito il suo impero da una modesta officina meccanica nella Brianza post guerra. La scalata dell'ingegnere fu irruenta e spavalda, con molti segreti e infiniti rapporti nelle stanze della politica. A Roma ci sapeva fare. Giulio Andreotti, il suo nume tutelare, lo guidò sino all'inaugurazione del polo di Porto Torres. Nel 1948 rileva la Società Italiana Resine, la Sir. Si era convinto che il futuro sarebbe stata la petrolchimica, dall'agricoltura alla vita quotidiana, dai derivati petroliferi alla raffinazione. Gli anni '50 stanno finendo quando il Consiglio di amministrazione della Sir, convocato in seduta straordinaria, decide lo sbarco in Sardegna. Invasione petrolchimica, prima a nord, poi al centro, Ottana, e infine a sud, da Macchiareddu a Sarroch.
Lo sbarco nel Nord dell'Isola
Si parte con Porto Torres. Quel lembo di Sardegna dal 1961 al 1965 verrà stravolto. Da spiagge mozzafiato a giochi chimici e petroliferi di ogni genere. Molecole di idrocarburi trasformate in prodotti sconosciuti alla terra di lentischio. Etilene, fibre, poliesteri, idrocarburi aromatici, materie plastiche e gomme. Quello che arriva nelle casse di Rovelli non è un fiume di denaro. È un tornado da 410 miliardi delle vecchie lire. Tutti da spendere nel grande sacco della Sardegna. Erogano la Cassa per il mezzogiorno, l'Imi, la Banca mobiliare pubblica, il Banco di Sardegna e il Credito industriale Sardo. Soldi pubblici, molti sono risparmi dei sardi. Rovelli conosce le leve del potere. Allunga le mani sull'informazione, acquista i due quotidiani dell'Isola, e soprattutto mette a correre il denaro necessario per trattenere in Sardegna Rombo di Tuono: Gigi Riva. Le banche sono talmente esposte che lo temono come un kamikaze imbottito di esplosivo, la politica lo usa come tappabuchi nelle crisi aziendali altrui.
Fino al 1973 la Sir di Rovelli aveva dilapidato 1.086 miliardi di lire, di cui ben 609 di contributi statali. Gli altri 500 miliardi erano tutti prestiti bancari: il 53% dall'Imi, il 29% dal Credito industriale sardo, il restante da istituti di credito sparsi qua e là, compreso il Banco di Sardegna. Un Everest di denaro. Crescono a dismisura i debiti e proporzionalmente franano gli introiti. Troppo indebitato per farlo fallire, troppi complici per non proseguire nell'opera devastante, finanziaria, cultura e ambientale dell'isola di Sardegna.
La politica gli impone di comprare Ottana, nel cuore della valle del Tirso. Duecentottanta miliardi di investimento. Settantanove li mette a correre il Credito industriale sardo. Sarà così anche per l'acquisizione dei pezzi sardi della Rumianca, nel sud dell'Isola.
In poco tempo, però, franano i suoi pilastri nella politica, da Andreotti a Leone, da Antonio Segni a Mancini. «Il 2 giugno del 1978 - racconta lo storico governatore della Banca d'Italia, Paolo Baffi - insieme al giovane Carlo Azeglio Ciampi, ricevetti Nino Rovelli. Ci disse che non aveva più soldi per alimentare i cicli produttivi. Ha pianto calde lacrime».
Dal baratro alla trasformazione
Gli portarono via tutto. L'Imi, l'istituto di credito più esposto, passò all'incasso. Aveva lasciato a Rovelli la ciclopica cifra di 1.200 miliardi di lire. Nel 1979, era il 17 luglio, il Clark Gable della petrolchimica sarda aveva perso lo smalto dell'uomo di successo e singhiozzando ammise: «Mi hanno portato via anche l'officina dove ho iniziato». La scena finale dell'impero sardo di Rovelli, però, non era stata ancora scritta. A novembre del 1990 la Corte d'appello di Roma stabilì un risarcimento a favore del magnate di 1.000 miliardi da parte della Banca Imi. La sentenza non fu limpida e le inchieste che ne seguirono misero sotto accusa giudici e avvocati. Un mese dopo, il 30 dicembre del 1990, Nino Rovelli muore a Zurigo. Ereditano la colossale cifra la moglie e i figli. Soldi macinati in terra sarda, frutto di inquinamento e devastazione ambientale, di progetti estranei anni luce dallo sviluppo dell'Isola. Capitali che la magistratura scoverà negli anni a seguire nei paradisi fiscali di mezzo mondo.
Nel frattempo, è il 1982, la petrolchimica sarda che fu di Rovelli diventa dell'Eni. Con l'Ente di Stato la filosofia di fondo di questo investimento si rafforza: produrre utili per quanto possibile, mettere l'inquinamento sotto il tappeto, tergiversare su bonifiche e riconversione, continuare a svuotare le casse pubbliche con incentivi di ogni genere, dall'eolico al fotovoltaico.
I disastri ambientali
In Sardegna, per i colossi che inquinano, il diritto ambientale non esiste. Chi inquina, qui, non paga, quasi mai. Anzi, guadagna a piene mani. L'Eni non ha mai amato la petrolchimica e ha fatto di tutto per dismettere produzioni e investimenti. Peccato che chi è proprietario di quel bene deve assumersi sino in fondo l'onere del danno ambientale, civile e penale, oltre all'obbligo delle bonifiche.
Il post Rovelli in Sardegna è l'infinita sfida tra l'Eni e le bonifiche che non s'hanno da farsi. Il gioco delle scatole cinesi è un vortice tutto proteso a perdere tempo, a non pagare mai il dazio ambientale. Quella che sta per iniziare dovrebbe essere la stagione dei processi e della resa dei conti sulle bonifiche mancate. Gli archivi del Tribunale di Sassari straripano dei fascicoli ambientali con nomi e cognomi, dall'Eni alla Syndial, da Versalis sino all'ultima arrivata, la Eni Rewind, la società specializzata negli affari ambientali per conto del colosso di Stato.
Lo scacchiere processuale si gioca su più fronti. Il cuore è Porto Torres. Le cause aperte infinite. Tutte o quasi con il rinvio a giudizio già decretato. Altre con decisioni clamorose già in primo grado. Come nel caso del contestato disastro ambientale e avvelenamento di acque e sostanze destinate all'alimentazione nel sito di Porto Torres. La Corte Costituzionale dinanzi all'ennesimo rischio di prescrizione ha accolto la tesi della Procura di Sassari: nel caso di reati come il disastro ambientale la prescrizione è pari a quella del dolo. In seconda battuta si costituiscono, come parti civili, il Ministero dell'Ambiente e la Regione Sardegna. In ballo c'è la barriera idraulica del sito di Porto Torres. Un muro tra il mare e l'inquinamento per bloccare la dispersione infinita di veleni.
Ministero e Regione hanno chiesto complessivamente risarcimenti per oltre un miliardo e mezzo di euro. Il Tribunale alla fine ha condannato tre dirigenti Eni Rewind ad un anno, con pena sospesa, per il reato di disastro ambientale limitatamente al periodo tra agosto 2010 e gennaio 2011. Il Tribunale ha liquidato un'elemosina provvisionale da 200 mila euro al ministero dell'Ambiente, mentre alla Regione e al Comune 100mila euro a testa. Il procedimento di secondo grado è in corso.
La collina dei veleni
E poi c'è la famosa collina dei veleni. La discarica nascosta di Minciaredda, sempre a Porto Torres, sempre delle società Eni. Area sequestrata. Gli contestano discarica non autorizzata e disastro ambientale. Per tentare di placare la Procura si inventano il progetto di bonifica "Nuraghe", appropriandosi indebitamente dell'identitario simbolo della Sardegna.
L'Astaldi, l'8 ottobre del 2014, annuncia di aver vinto la gara per la bonifica. Siamo nel 2020, l'Astaldi è sparita e la bonifica di fatto non è mai partita.
Ma i giudici non si sono lasciati incantare. Rinvio a giudizio di imputati e società davanti al Tribunale di Sassari. Il processo è alle porte. Così come quello per la zona delle palte fosfatiche. A novembre del 2019 i giudici hanno formulato la richiesta di rinvio a giudizio. I processi lentamente avanzano. Le bonifiche, invece, sono ferme al palo come non mai. Ogni scusa è buona.
L'Astaldi salta per aria e l'Eni gli revoca l'appalto. Come succede nelle basi militari i generali dell'Ente di Stato annunciano: delle bonifiche ce ne occupiamo direttamente noi. Ogni tanto arriva qualcuno che annuncia centinaia di milioni di nuovi investimenti, dalle bonifiche alla fantomatica chimica verde che nell'ultimo bilancio dell'Eni viene inquadrata tra gli investimenti a rischio. In realtà l'Eni i soldi a Porto Torres non li vuole spendere ma guadagnare. L'ultimo investimento è la costruzione di una mega distesa di pannelli fotovoltaici, 57 ettari di terreni non inquinati occupati da un'infinita lastra nera di silicio. Zero lavoratori o poco più, ma guadagni a piene mani. Ogni anno quel pannello farà arrivare nelle casse dell'Eni 10 milioni di euro di incentivi solari. Duecento milioni di euro in vent'anni.
Qui, nell'eterna terra di conquista, non si fanno le bonifiche, chi ha inquinato non paga e nel contempo continua a fare soldi a palate sulle spalle della Sardegna e dei sardi. Come ai tempi di Rovelli.
Mauro Pili
(Giornalista)