Mentre in Europa parrebbe evidenziarsi un certo tentativo di isolamento dell’Italia rispetto alle decisioni rilevanti per il futuro dell’Unione e dei singoli Membri, specie sul piano squisitamente economico, e non è una novità, avanza l’ipotesi di sentire approvata, ed in via definitiva, la proposta di direttiva sulle cosiddette case “green” che, se un tempo parevano essere roba da ricchi, ora, con buona probabilità, rischiano di divenire una realtà comune alla generalità dei consociati, andando a gravare sull’economia domestica di tutti.

E, se anche parrebbe sventato il rischio di non poter porre in vendita o locare immobili a scarso rendimento energetico, resta tuttavia nella disponibilità degli Stati decidere se imporre o meno sanzioni in danno a quanti non dovessero, anche solo per propria personale incapienza economica, conformarsi alla nuova normativa nei tempi e nei termini imposti.

Intendiamoci: sappiamo tutti che, potendo, ed è questa la “conditio sine qua non”, tutti vorrebbero appunto adempiere, ma ad essere fuori luogo, e completamente disancorata dalla realtà contingente, parrebbe essere la tempistica delle Istituzioni europee, che sembrerebbero, nella loro esigenza di perseguire un perfezionismo intransigente sia pure utilissimo, trascurare tanto le difficoltà al momento esistenti, sul piano esistenziale, in diversi Stati membri, e conseguenti alla crisi economica iniziata nel periodo pandemico poi degenerata a cagione delle vicissitudini conseguenti ed aggiuntesi, tanto la differente condizione economica dei cittadini dei vari Paesi membri. Insomma. Se è vero, come parrebbe essere vero, che il fine da perseguire sia quello di “decarbonizzare” il sistema immobiliare europeo, nella sua interezza entro il 2050 per soddisfare l’esigenza di provocare una sensibile riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra e quindi le bollette, e se pure si voglia fare in modo che a far data dall’anno 2030 tutti gli edifici privati di nuova edificazione siano a zero emissioni e quelli pubblici addirittura dall’anno 2027 con conseguente obbligo di disporre di un apposito attestato di prestazione energetica, tuttavia, la domanda sembrerebbe imporsi in tutta la sua consistenza pratica: in quanti potranno riuscire ad adempiere?

Tutte le difficoltà pratiche già emerse in termini di fattibilità e magari nei termini stretti di percezione eventuale di agevolazioni con il 110%, potrebbero con buona verosimiglianza ripresentarsi, e forse in misura maggiore all’atto della applicazione nel quotidiano delle nuovissime disposizioni normative. La situazione dell’Italia è singolare rispetto ai restanti Membri, e come tale va considerata e trattata: il nostro, è il patrimonio immobiliare più vetusto dell’intera Europa e probabilmente anche il più caratteristico se ci soffermiamo a considerare i centri storici esistenti nei veri borghi.

È corretto, e/o realmente utile, giungere a cancellare (forse) la nostra unicità? Anziché un obbligo di adeguamento dell’esistente non sarebbe forse più opportuno decidere di estendere questi inediti obblighi di efficientamento energetico solo agli immobili di nuova edificazione? Sarà possibile, in termini di certezza, garantire alla generalità dei contribuenti, lavoratori, famiglie e pensionati che certo non possono vantare redditi di eccellenza, la possibilità di fruire puramente e semplicemente, senza limitazioni di sorta, di incentivi statali strutturali?

L’incertezza spaventa le famiglie italiane che già fanno grande fatica, a causa del rincaro dei prezzi financo dei generi di prima necessità, a sopravvivere ad una quotidianità divenuta quasi insostenibile. Le Istituzioni europee, quanto meno questa è la sensazione che pare potersene ricavare, non possono pretendere di far ricadere sulle famiglie i costi ingenti di una transizione energetica già difficoltosa nella sua ideazione, figuriamoci nella sua applicazione concreta. Non si può pensare ai cittadini europei solo nei termini del loro potenziale economico perché così facendo si rischia, con buona verosimiglianza, di produrre una crisi sociale che potrebbe indurre la gran parte dei Paesi a seguire la via già intrapresa dalla Gran Bretagna.

Detto altrimenti: se si vuole un’Europa forte e stabile sul piano sociale prima ancora che politico, siccome il secondo aspetto è diretta conseguenza del primo, allora sarebbe necessario che quella stessa Europa, e i suoi Membri più forti sul piano economico, iniziassero a mettere in pratica i valori primari della solidarietà e della coesione, perché la loro forza, è bene dirlo, potrebbe dissolversi come neve al sole nel momento in cui si venisse a determinare uno “scollamento” nella relazione unitaria tra gli stessi e tra essi e quelli più disagiati.

Un’Europa a differenti velocità non può esistere, esattamente come non può esistere sul piano interno nostrano un’Italia con motori di sviluppo differenti, invero già esistenti, e che rischiano di essere ancora più “differenziali” se dovesse trovare ingresso la riforma sulla “autonomia differenziata”. Ogni riforma, tanto a livello europeo, quanto su quello interno, va pensata e proposta calcolandone le conseguenze sul piano concreto e sotto tutti i punti di vista.

Quali saranno gli effetti sul mercato? Si riuscirà, considerati i tempi ridottissimi a rinvenire materiali e materie prime? E la manodopera: chi si assumerà la responsabilità e il compito di formarla allo scopo? Sarà possibile farlo in tempo utile? Non è certo necessario scomodare Lapalisse per comprendere che si andrà incontro ad un importante, quanto devastante, in termini di conseguenze, impoverimento di valore dei vari immobili.

Quella che stiamo vivendo non sembra essere un’Unione europea a misura di cittadino e probabilmente, all’interno delle sue Istituzioni, che qualcuno potrebbe definire senz’anima per essere vincolate all’ossequioso rispetto di procedure farraginose, bisognerebbe ridefinire i termini del raffronto.

In un’Europa dei Popoli che voglia dirsi ed essere tale, i cittadini devono potersi confrontare direttamente con i centri di potere e decidere. Probabilmente si tratta di pura e semplice utopia, ma allora come si può fare a coniugare le diversità esistenti? Come si fa a perseguire l’unità nella diversità? Come dovremo mai provvedere se non sembra esservi alcuna compatibilità tra quanto l’Europa vorrebbe imporci a strettissimo giro e il nostro patrimonio immobiliare? È così difficile comprendere che certe riforme, per essere portate a compimento in termini di realismo, necessitano di un percorso sociale caratterizzato anzitutto da stabilità e serenità umana ed economica?

Non possono esistere solo doveri, ci sono anche i diritti, quali quelli relativi all’essere sostenuti nel momento contingente già così difficile da affrontare e da gestire sul piano proprio della tenuta sociale del Paese.

La voce degli Italiani in Europa deve arrivare forte e chiara: tempo al tempo perché occorre ripensare al timing della pianificazione energetica e non solo nei termini stretti della sua fattibilità. La priorità deve tornare ed essere il cittadino europeo ed il suo benessere nel consesso unionale. Tutto il resto probabilmente può attendere.

Al Governo Meloni, se vorrà, e speriamo lo voglia, il compito di promuovere una nuovissima Costituente Europea che porti il cittadino su un piano di protagonismo. L’Europa degli Stati ha mostrato tutti i suoi limiti, ed è tempo di cambiare passo.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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