C'è chi «per sicurezza» ha levato le infiorescenze dagli scaffali del negozio, chi cerca comunque di andare avanti chiamando l'avvocato come fosse un terapista anti ansia e chi, fatto l'investimento, ha deciso che non può far altro che affidarsi alla buona sorte e al buon senso. A sette mesi dalla sentenza della Corte di Cassazione che ha dichiarato fuorilegge la vendita di prodotti a base di cannabis light, grava la confusione tra gli imprenditori che hanno investito nel settore. Un settore in forte espansione in tutta Italia.

AGRICOLTORI E NEGOZIANTI - Tra agricoltori che coltivano la canapa (ovviamente con sementi certificate) e titolari di negozi green spesso dotati anche di piattaforma online, solo in Sardegna sono almeno duecento le attività avviate. Dall'agroalimentare (pasta, olio, pane e biscotti) alla bioedilizia, dalla dermocosmesi all'industria farmaceutica: della cannabis sativa non si butta via nulla, tanto da essere definita «il maiale del mondo vegetale». Ma parti come le più classiche infiorescenze che finiscono sugli scaffali di vendita - ufficialmente né più né meno di un articolo del settore florovivaistico (è comunque vietato fumarle) - sembrano diventate amare oltre ogni limite. È su questo prodotto della cannabis sativa - al di là del rispetto dei limiti di thc (il tetraidrocannabinolo, principio attivo che dovrebbe essere nei limiti dello 0,2% e comunque sotto lo 0,5%) - che montano la confusione e i non pochi grattacapi per gli imprenditori.

GUIDA AL THC A - corredo d'informazione, va detto subito che il thc che crea l'effetto psicotropo delle "canne", vietate, come quello della cannabis legale coltivata dallo Stato per scopi terapeutici, oscilla tra il 5 e l'8%. I disagi degli esercenti «Purtroppo non c'è chiarezza e la recente sentenza della Cassazione, che comunque sollecita un intervento del legislatore, non ha certo aiutato in questo senso», dice Piero Manzanares, 45 anni, sassarese, presidente di Sardinia Cannabis, associazione che riunisce 150 tra agricoltori, titolari di laboratori e industrie alimentari, commercianti. «Tanti nostri soci hanno preferito non correre rischi e hanno tolto le infiorescenze dal loro punto vendita - spiega -. A qualcun altro è capitato di vedersi bloccato un pacchetto in spedizione alle Poste perché i cani antidroga hanno sentito l'odore. I controlli, lo capiamo tutti, vanno fatti, ma questi sono disagi che possono spaventare chi lavora pur seguendo tutte le regole».

VENDITA ILLECITA - Ma cosa hanno scritto i giudici della Suprema Corte nella sentenza del 30 maggio scorso, le cui motivazioni sono state depositate il 10 luglio? «La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa light e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicabilità della legge 242 del 2016 (Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa), che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole». Insomma, la vendita «è illecita» indipendentemente dal contenuto di thc della merce poiché rientra nella fattispecie di reato contenuta nel testo unico sugli stupefacenti e non è possibile escludere - se non a posteriori, ovvero dopo il sequestro della merce e la verifica - che infiorescenze, olio e resina (l'estratto alcolico) abbiano «un effetto drogante».

LA VALUTAZIONE CASO PER CASO - Se è un reato «l'offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati della coltivazione della cannabis sativa», il giudice che di volta in volta si trova ad esaminare tali situazioni deve «verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione». Quindi, «si impone l'effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all'attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi». Su questo punto, che allarga lo spazio lasciato alla discrezionalità nella fase dei controlli, la sentenza della Cassazione ha generato ancora più confusione tra gli operatori. Ma allora che cosa si può vendere e acquistare dei derivati della canapa? Cose come, è l'elenco fatto dai giudici di piazza Cavour che richiamano la legge, «alimenti e cosmetici; semilavorati come fibra e canapulo; oli o carburanti; materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati, biomassa a fini energetici per l'autopromozione energetica aziendale, materiale destinato alla pratica del sovescio in agricoltura, materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia».

SUL FILO DEL RASOIO - La confusione è tanta che, racconta il presidente di Sardinia Cannabis Piero Manzanares, «come associazione abbiamo problemi per la registrazione del logo: il ministero dell'Economia ce la nega ma, allo stesso tempo, il ministero dell'Agricoltura accoglie la nostra domanda per l'accreditamento. Perché ci è stata respinta la domanda di registrazione? Ci dicono che il logo istigherebbe al consumo. Abbiamo fatto ricorso spiegando che la nostra missione è far conoscere le tante potenzialità di questa pianta, ma ancora aspettiamo una risposta». La confusione, in realtà, dicono invece da Assocanapa, «c'era già prima della sentenza della Cassazione». L'associazione che riunisce il grosso dei produttori di canapa industriale in tutta Italia non tratta le infiorescenze (se non per l'industria farmacologica e la cosmesi): «Nel quadro normativo attuale si finisce per lavorare sul filo del rasoio».

COSA SUCCEDE? - È sempre possibile, dunque, il rischio del sequestro della merce da avviare agli esami di laboratorio per valutarne «l'efficacia drogante» così come dice la Cassazione. «Al di là della liberalizzazione della vendita di questi prodotti - spiega l'avvocato Aldo Luchi, presidente dell'Ordine forense di Cagliari - il presupposto è chiaramente che non siano in contrasto col dpr 309 del '90 (il testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, ndr) e siccome questo, di fatto, non fa nessuna distinzione quanto a capacità stupefacente del prodotto, il riferimento è alle norme tecniche: di volta in volta, cioè, ci dovrebbe essere l'attestazione da parte del laboratorio chimico che il quantitativo di thc nel singolo prodotto non abbia potenzialità drogante». Vero è che, sottolinea il legale, «i prodotti venduti da questi shop sono tutti provenienti da coltivazioni certificate, quindi che possano avere efficacia drogante mi parrebbe quantomeno strano». Però la Cassazione non è nuova a interpretazioni molto formalistiche, avverte l'avvocato Luchi. «Basti pensare alla oscillazione che ha avuto negli anni riguardo alle pronunce giurisprudenziali in materia di coltivazione della cannabis: se da un lato si osserva che la coltivazione per uso personale genera un assai ridotto allarme sociale rispetto alla grossa coltivazione finalizzata alla vendita e quindi allo spaccio, e perciò dovrebbe essere non punibile, spesso la Cassazione si è rifatta al fatto che, quando con il referendum fu abrogata la rilevanza penale dell'articolo 75, furono depenalizzati soltanto l'uso e l'acquisto e non la coltivazione per uso personale».

LEGGI DI PUBBLICA SICUREZZA - «Poi si sovrappone la normativa prevista dal decreto sicurezza e quindi la verità è che il sequestro non è illegittimo se effettuato di volta in volta. La parabola che io intravedo - dice il presidente dell'Ordine degli avvocati di Cagliari - è la stessa che c'era stata a suo tempo con le contestazioni di ricettazione ai compro-oro, che alla fine sono stati regolamentati. La questione è molto simile, direi, salvo che qui c'è un'impostazione di politica giudiziaria, quella che ha portato all'approvazione del decreto sicurezza chiaramente di stampo punitivo nei confronti di tutto ciò che assomigli a una forma di liberalizzazione del commercio delle sostanze stupefacenti. Ciò che, chiaramente, non è la cessione della cannabis light nei negozi».
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