"Vietato ai nomadi". È scritto in una specie di cartello stradale, il classico simbolo del divieto d'accesso, a Petit- Couronne, vicino a Rouen. Succede nel 2010. Un vecchio signore, che in un'altra vita è stato un giostraio, lo vede e monta in collera. Svelle il cartello e se lo porta via. Come si può, nell'Europa del Terzo Millennio, consentire a qualcuno di scrivere "Vietato ai nomadi"? Bisogna metterla bene in evidenza, questa vergogna. Gridarla ai quattro venti. Così "Interdit aux nomades" (ma in Italia sarà "Il piccolo acrobata") diventa il titolo di un libro in cui il vecchio signore, con l'aiuto di una giornalista, racconta la sua storia. La storia di un bambino felice, l'acrobata di un piccolo spettacolo familiare, che a 15 anni precipita in un inferno: il Porràjmos, ovvero l'Olocausto dimenticato del Popolo Romanì ad opera dei nazisti tedeschi, dei fascisti italiani e dei collaborazionisti francesi. Racconta anche della sua ribellione, delle fughe dai campi di confino (otto volte), dell'impegno nella Resistenza. Per scoprire, tornando a casa nel Dopoguerra, che il razzismo, l'anti-ziganismo, non sono scomparsi con i nazisti. Anzi.

Quel signore si chiamava Raymond Gurême, era un testimone prezioso della storia d'Europa, ed è morto il 24 maggio ad Arpajon, in Francia. Il suo sorriso sghembo di vecchio con gli occhi da bambino, l'aria trasognata di innamorato della vita, nonostante tutto, campeggiano sui siti e sulle pagine Facebook di Rom e Sinti d'Europa.

UN SIMBOLO "L'ho incontrato due volte e me ne sono innamorata. Era una persona meravigliosa. Era un simbolo di sopravvivenza, resistenza, vittoria". Dijana Pavlovic, 43 anni, è un'attrice e attivista politica di origine serba che da anni vive a Milano. È fondatrice del Movimento Ketahne - Rom e Sinti per l'Italia. Nato nel marzo 2019 per dare la voce a chi non ne ha. "Vogliamo migliorare la nostra condizione e con essa il nostro Paese con il contributo positivo dei valori della nostra cultura, della nostra visione del mondo", si legge nel Manifesto del Movimento. "Non facciamo progetti di inclusione sociale", puntualizza Pavlovic. "Ci poniamo obiettivi politici per la crescita e l'auto-organizzazione delle comunità locali". Per i giovani Sinti e Rom che scendono sul terreno del dibattito e della partecipazione politica, Raymond Gurême è un mito, per la sua ostinata ribellione, il suo rifiuto del conformismo. Per la sua voglia di vivere, ma anche la sua scelta di unirsi alla Resistenza. "L'ho conosciuto agli incontri del Consiglio d'Europa con gli attivisti", ricorda Pavlovic. "È stato meraviglioso. La prima cosa che ha fatto si è messo a bere una birra e ballare con noi", ricorda Pavlovic. "Ci diceva: non lasciare mai la tua vita nelle mani degli altri. Per tutta la sua esistenza è stato un ribelle".

STORIA DI UN GENOCIDIO "Vietato ai nomadi". Quel cartello infamante, rubato nel 2010, Gurême lo pianta proprio davanti alla sua proprietà nella campagna francese, nel dipartimento dell'Essonne. Dove con la moglie Pauline ha cresciuto quindici figli. Nessuno deve ignorare quello che è successo settanta anni prima, e che può succedere ancora. Quello che la vita gli ha inciso, a lettere di fuoco, nell'anima e nel corpo (ha perso 15 chili, in guerra, e non li riprenderà mai più). "Vietato ai nomadi", si legge, davanti alla collina dove tutto è incominciato. Ai piedi di quella collina, nel 1940 c'è un autodromo storico che ha conosciuto tempi migliori. I nazisti che hanno invaso la Francia lo trasformano in un campo di confino. Ci sbattono dentro Raymond, che ha 15 anni, la sua famiglia e tutti gli altri Rom e Sinti della regione. È il 4 ottobre 1940.

UN'INFANZIA MAGICA "Magica": così Raymond Gurême defiinisce la prima parte della sua vita. È nato in una famiglia di Manouche (una delle grandi famiglie Romanì, insieme ai Rom, ai Sinti e ai Kalè), artisti circensi, che viaggiano tra Francia, Belgio e Svizzera. Il padre ha una macchina da proiezione e la famiglia, relativamente agiata per l'epoca, porta il cinema (muto) in paesini dove i veri poveri sono i Gagé, gli abitanti locali. Mentre il clan dei Gurême ha il caravan con l'acqua calda. Sin da piccolo, Raymond è il clown e l'equilibrista del gruppo e i suoi numeri hanno grande successo. Una vita libera, che finisce con la prigionia prima in una fabbrica in disuso e poi nell'autodromo di Linas-Montlhérie.

LE FUGHE RIPETUTE Il ragazzo però non si sottomette. "Fugge, con il fratello. È ripreso, e fugge di nuovo: otto volte in tutto. Finirà in casa di correzione e infine deportato in un campo di lavoro vicino a Francoforte", racconta Alberto Melis, 63 anni, insegnante e scrittore cagliaritano. Appassionato amico del Popolo Romanì, ha fatto parte dell'Associazione sarda contro l'emarginazione e della Fondazione Anna Ruggiu, impegnate nella difesa dei diritti dei Rom. "Nel campo di lavoro in Germania - racconta - le SS lo hanno picchiato a morte. Almeno, così credevano. Gli hanno sfondato il cranio. Un amico internato, usando un fil di ferro, ha ripulito la ferita dai frammenti ossei. Raymond è sopravvissuto". Non solo: fugge, grazie all'aiuto di un camionista francese che riforniva di cereali la Germania, e unisce alla Resistenza. "Solo negli ultimi anni - spiega Melis - gli storici stanno rivelando il ruolo dei Rom e dei Sinti nella Resistenza europea".

IL DOPOGUERRA E LE SUE CATTIVE SORPRESE Nel Dopoguerra Gurême impega cinque anni prima di ritrovare la sua famiglia in Belgio. Sposa Pauline (anche lei un'ex internata) va a vivere a Saint Germain Les Arpajon, in un ampio terreno di due ettari e mezzo a poca distanza dal campo dove fu internato, e dove tuttora non è gradito. Più volte cercheranno di cacciarlo i discendenti dei contadini poveri a cui la famiglia Gurême settant'anni prima aveva portato un po' di sollievo con il suo cinema itinerante e le acrobazie dei suoi ragazzi. Insomma, il cittadino Gurême scopre che la Francia della Quinta Repubblica non è poi così diversa da quella di Vichy: un nomade è sempre un cittadino di serie B. Guardato con sospetto. Il suo impegno per la Resistenza non gli frutta neanche una pensione. Nel 1983 chiede il certificato da internato: glielo riconosceranno nel 2009.

A quel punto la presa di coscienza politica è completa. È a quel punto, nella Francia dei Le Pen, che l'ormai anziano giostraio trova il cartello "Vietato ai nomadi". Di nuovo. Passerà il resto della sua esistenza a testimoniare quel che è stato, a denunciare le persecuzioni sempre attuali dell'antiziganismo. Nel 2010, il governo Sarkozy lo nomina cavaliere delle arti e delle lettere "per aver contribuito a lottare contro le discriminazioni che subiscono ancora gli Zigani nel nostro paese, sebbene siano cittadini francesi, insediati in questo territorio sin dal XV secolo". Il tardivo riconoscimento del governo non gli rende però la vita quotidiana più facile. Nel 2014 Raymond Gurême denuncia di essere stato aggredito dalla Polizia, durante un raid nella sua proprietà, ma l'inchiesta finità nel nulla. Oppresso in patria, onorato nelle istituzioni europee, modello per tanti giovani Sinti e Rom che rivendicano il diritto a parlare per se stessi, a rappresentare il loro proprio punto di vista nel quotidiano e nella storia. "Il suo posto è al Pantheon" (con gli eroi della Nazione), ha scritto su Libération maître Henri Braun, 51 anni, potente e spavaldo avvocato degli ultimi di Francia.

L'EREDITÀ DI UNA VITA Mentre Raymond Gurême viene sepolto, nel cordoglio dei centosessanta nipoti e degli ammiratori sparsi in tutto il mondo, la sua eredità viene raccolta dalle giovani generazioni. Orgogliose di far parte del grande popolo Romanì e ben decisa a far sentire la propria voce. Non che sia facile. Per adesso, non si sa neppure quanti siano, fra Rom, Sinti, Manouche e Kalè (prevalentemente musulmani) i discendenti di genti che furono nomadi e che ora vivono prevalentemente in appartamenti e, in qualche caso, in campi-ghetto. L'ipotesi è che siano 150 mila in tutta Italia. "Non lo sappiamo con certezza" spiega Dijana Pavlovic. "Lo Stato riconosce 12 minoranze, ma il Popolo Romanì non rientra fra quelle, quindi non può essere censito". Inevitabilmente, è facile che a essere contati siano soprattutto i gruppi più poveri, quelli assistiti dalla Caritas o da altre associazioni. "Sono dieci anni che, ciclicamente, proviamo a ottenere il riconoscimento, senza riuscirci. Abbiamo provato anche una proposta di legge di iniziativa popolare, ma non siamo riusciti a raccogliere un numero sufficiente di firme".

Rom e Sinti, ben presenti nelle invettive dei razzisti e nelle tirate dei politici populisti, semplicmemente non esistono per lo Stato italiano. Neanche quando si celebra la Giornata della Memoria delle vittime dell'Olocausto, il 27 gennaio. "Ci siamo tutti, meno che noi". Eppure non è più un mistero che siano almeno mezzo milione le vittime europee del Porrajmos: deportate nei campi di concentramento nazisti (con la complicità del regime fascista) come gli ebrei, gli oppositori politici, i disabili, gli omosessuali. Lo scorso anno l'artista Moni Ovadia e il rabbino Ariel Toaff hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Chiedono che la Giornata della memoria del 27 gennaio finalmente comprenda, a livello legislativo, anche il Popolo Romanì.
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