Chi conosce Padre Morittu sa bene quale sia la bontà di questo francescano che ha dedicato la sua missione di sacerdote ad aiutare i più deboli. I suoi occhi sprigionano una luce di carità che illumina gli spiriti più inquieti e il suo sorriso infonde fiducia, speranza e quel calore della fede che altrimenti è difficile da percepire per chi è lontano dalla religione e dal credo cristiano.

Uno dei simboli dell'operosità della chiesa in terra, il frate amico di tutti e sempre presente nei momenti più difficili degli ultimi ha vinto la sua battaglia contro il Covid.

Ma lui, in fondo, non si è battuto, forse la sua missione terrena era conclusa ed era pronto all'abbraccio del Padre Eterno. Evidentemente, come lui stesso ha dichiarato in un video girato pochi giorni dopo le dimissioni dal reparto di pneumologia dell'Ospedale SS. Annunziata di Sassari, chi veglia sulle anime che muovono il mondo degli esseri umani ha ritenuto che il frate di Bonorva, oggi Commendatore per volere del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che a fine anno lo ha insignito della prestigiosa onorificenza, non avesse ancora portato a compimento molte delle sue azioni a favore dei più deboli.

Dopo l'ultimo tampone con esito negativo Padre Salvatore è potuto tornare a S'Aspru per continuare il suo prezioso lavoro con i ragazzi della comunità che tanto hanno pregato perché il loro Padre spirituale potesse superare questa difficile prova.

Padre Salvatore, nonostante tutte le precauzioni il virus è entrato a S'Aspru. Siete riusciti a capire come e quando?

"La gestione di una comunità composta solo da malati di Aids e quindi immunodepressi, facilissima preda di questo virus, richiede precauzioni particolarissime. Altre prescrizioni, apparentemente meno severe, le comporta una comunità per i tossicodipendenti nella quale, seppure sia facile immaginare che vivere tutti insieme in un'area circoscritta come sono i nostri 93 ettari a S'Aspru possa essere già di per sé un'adeguata difesa, lavorano varie figure esterne: i nostri sei educatori hanno famiglie, amici e parenti, quindi una parte della loro vita è inserita in un ambito sociale differente e comunque sempre a rischio contagio. Ugualmente i nostri maestri di lavoro, che operano in falegnameria e in altri settori, hanno delle relazioni al di fuori della comunità quindi è facile che il virus, tanto è la sua diffusività e contagiosità, possa entrare anche in un contesto come il nostro".

Quasi fortini inespugnabili quindi?

"Sicuramente un ambiente maggiormente protetto, però a metà novembre due operatori avevano segnalato tempestivamente alcuni sintomi riconducibili al Covid-19 e ovviamente si sono ritirati in isolamento. Ma, nonostante i tamponi negativi di quei giorni, il risultato della positività di tutta la comunità, se si eccettuano un operatore e il maestro di lavoro nell'allevamento dei capi di bestiame, è arrivato il 29 novembre. A quel punto l'impensato si è materializzato come una presenza nefasta in ognuno di noi".

Come avete reagito a questa notizia?

"All'inizio eravamo tutti asintomatici quindi c'era una relativa tranquillità: con la quarantena prevista dai protocolli pensavamo di poter superare il problema. Ma dopo una settimana le mie difese immunitarie si sono forse allentate e il virus ha potuto trovare un varco d'accesso nel mio organismo provocando sintomi che mi hanno costretto a recarmi al pronto soccorso per verificare l'evolversi della malattia. Mi viene effettuata una tac e il medico, nell'analizzare l'esame, mi diagnostica una polmonite da Covid-19".

Che cosa ha provato?

"In quel momento, considerato che qualche giorno prima ero stato visitato da un medico che mi aveva tranquillizzato sul mio stato di salute, sono diventato consapevole che dentro di me c'era un alieno che, senza darmi nessun segno, era diventato padrone assoluto del mio corpo. Una sensazione straniante perché quando capita di avere un dolore a un muscolo o a un organo, in base alla sua intensità, si riesce a presagire la gravità della situazione mentre al venir meno dei sintomi si intuisce che la patologia è in via di risoluzione. In questo caso non avevo nessun riferimento tangibile se non il saturimetro con il quale ero in grado di conoscere il livello di ossigenazione. Nel momento in cui ha segnato un livello tale da destare allarme mi sono reso conto che non avevo strumenti per oppormi al virus e che questo infido ospite mi stava richiamando a fare i conti della mia vita. Sono così entrato nell'ordine di idee di prepararmi alla morte, un percorso drammatico che dalla terapia semintensiva all'intubazione mi avrebbe portato a lasciare il mondo terreno".

Cosa può raccontare di questo incontro ravvicinato con la vita eterna?

"Una volta raggiunto il livello di guardia i sanitari mi hanno consentito di respirare grazie al casco e l'avere l'ossigenazione forzata mi ha garantito anche una straordinaria lucidità. Questo l'ho percepito in modo molto chiaro. E questa lucidità della mente mi ha portato a confrontarmi con domande importanti, in particolare sulla mia vita, sulla morte e sul dopo. A me, forse, è stato dato il dono - non di disperarmi o maledire la vita pensando come è possibile che possa accadere tutto questo - ma bensì di capire che il mio tempo si stava compiendo: 74 anni è stata la durata della vita di mio padre e alla stessa età ci saremmo ritrovati, forse, in paradiso. Il mio pensiero era unicamente che Dio aiutasse i ragazzi, i miei collaboratori, il frate giovane che aveva iniziato con me a settembre il percorso per impegnare la sua vita a favore dei tossicodipendenti, che tutti potessero dare il meglio di loro stessi perché questo impegno non venisse meno e non impoverissimo l'umanità, e in particolare la nostra Isola, di un aiuto per i ragazzi tossicodipendenti e per i malati di aids. Questa era la nuvola dentro di me che attirava i miei pensieri".

Era una percezione molto nitida della morte?

"Noi religiosi spesso riflettiamo sulla morte, la presagiamo, mai però abbiamo la percezione precisa che la morte possa effettivamente essere parte della vita. Ecco in quei momenti ho sentito la morte unirsi alla mia vita. Quante volte un sacerdote è chiamato per parlare della morte, come della vita, nei funerali e in tante vicende umane, però sentirla dentro la propria persona senza provare quella disperazione terrena che dovrebbe essere naturale mi ha dato un tono di fede ancora più elevato e maturo. Stare 13 giorni con il casco per la respirazione assistita non ti lascia molte alternative: o ti attrezzi con un fluido di pensieri sempre vivido e che ritieni importanti perché ricchi di chiarore, di luce, di speranza, e allora riesci a sopportare tutto, oppure questa condizione fa lievitare il desiderio di liberarti materialmente del casco e di non accettare più le cure dei medici. Prevale lo sconforto e la forza del virus riesce a fare breccia nelle poche energie residue. Questo a me non è accaduto. Merito mio? Non lo so".

La prima cosa che ha fatto una volta guarito?

"Visto che ho trascorso la quarantena a Sassari, davanti al Santuario della Madonna delle Grazie, protettrice dei frati della Sardegna, la prima cosa che ho fatto una volta guarito è stata la messa di ringraziamento proprio nel Santuario perché la Madonna mi è stata molto vicina e tanti hanno pregato la Madonna, chi a Cagliari, attraverso la Madonna di Bonaria, chi a Sassari e in tante altre città dell'Isola.

Ho sentito forte il bisogno di ringraziare Dio per il tramite della Madonna delle Grazie capace di esprimere al Padre Eterno tutta l'intensità della mia gratitudine. E poi a Cagliari vorrò fare un pellegrinaggio a San Salvatore da Horta, quel Santo che mi ha salvato al momento della nascita: i medici avevano presagito a mia mamma un parto molto difficile, e la possibilità della perdita del nascituro, cioè io stesso, era elevatissima. Ma le preghiere rivolte a lui consentirono la mia salvezza e anche nell'esperienza del Covid sento che la sua intercessione mi abbia in qualche modo preservato".

Ora che progetti la attendono a S'Aspru?

"Il primo progetto che mi aspetta è quello che riguarda il reinserimento di un gruppo di ragazzi da tempo nostri ospiti. Dopo il periodo di 4 anni in Comunità i protagonisti del percorso di recupero devono lasciare S'Aspru per tornare in famiglia, nella società, nel mondo degli affetti e nell'universo lavorativo. È un periodo già difficile in tempi normali. Ora, con la pandemia globale in corso, diventa un'azione delicatissima e di straordinario impegno. I ragazzi non possono muoversi liberamente per cercare un'occupazione. Ancor più, in questo presente, il lavoro è diventato un diritto non così facilmente perseguibile e anche le distanze imposte dai protocolli sanitari non agevolano la ripresa piena dei rapporti familiari e di amicizia".

E ancora ?

"L'altra azione prioritaria da portare avanti è come curare l'inserimento di nuovi ospiti nella comunità. Perché l'arrivo di un ragazzo nuovo ha bisogno di essere gestito con particolare cura e attenzione: noi facciamo osservare 10 giorni di quarantena con tampone negativo. Pensiamo ad un ragazzo tossicodipendente che è in crisi di astinenza e che, a causa dell'emergenza sanitaria, quando arriva deve stare da solo proprio nel momento in cui avrebbe bisogno di un sostegno psicologico intenso e presente. È una fase critica e delicatissima. E anche i rapporti con le famiglie sono molto complicati: ogni mese si tiene un incontro con i parenti dei nostri ospiti ma in questo frangente diventa problematico poter mantenere vivi questi legami soprattutto in considerazione di quello che è avvenuto recentemente. Le cautele dovranno essere ancora maggiori, quasi da clausura totale".

Nella condizione di malato che ha vissuto suo malgrado, ha percepito le preghiere del popolo sardo?

"Da un punto di vista pratico, avendo dovuto portare per 13 giorni il casco con difficoltà enormi a comunicare e a far sentire la mia voce, i contatti con il mondo esterno erano pressoché inesistenti anche perché tutto il personale sanitario, protetto con tute integrali, occhiali, maschere e visiere, non aveva la possibilità di darmi notizie o informarmi su ciò che avveniva fuori dall'ospedale. Io, però, spiritualmente, intuivo che la gente pregava per me e la commozione è stata grande quando, tolto il casco, mi sono reso conto della situazione e di quello che era avvenuto durante la mia sofferenza: una moltitudine di persone inimmaginabile pregava per me, mi pervenivano segnali anche da chi non aveva particolare confidenza con la fede quasi avesse nel cuore il desiderio di farmi un augurio, di starmi vicino. La possibilità di percepire in un uomo laico, magari non credente, questa tensione, mi ha riempito di felicità e davvero non so come ringraziare i sardi di questo grande dono. Sapere che la mia figura e la mia condizione hanno intercettato anche questa parte del loro cuore e del loro spirito per me è stata una cosa della quale sento di non essere degno".

Padre Salvatore Morittu (foto concessa dalla Comunità S'Aspru)
Padre Salvatore Morittu (foto concessa dalla Comunità S'Aspru)
Padre Salvatore Morittu (foto concessa dalla Comunità S'Aspru)

Cosa si augura per il futuro?

"In questo sentire globale della pandemia, che unisce tutti gli esseri umani, una cosa importantissima è la riflessione proposta da Papa Francesco dei 'fratelli tutti', cioè una solidarietà fraterna universale e quindi interconnettere i nostri bisogni, saperli in qualche modo condividere, ascoltare, proiettare insieme. Un mondo che si pone su questa linea di futuro fa sbocciare un gran desiderio all'interno della pandemia: quando c'è fragilità, e la pandemia è fragilità, abbiamo bisogno di relazioni forti a tutti i livelli. In una visione, invece, più vicina al nostro quotidiano, alla realtà locale, sogno la mia chiesa simile a un ospedale da campo, come ha detto il Papa: nessuno deve rimanere indietro, più povero sei, più bisogni hai e più la precedenza ti deve essere garantita. Questa è la visione della mia chiesa e di noi frati che, come francescani, abbiamo tante possibilità, per formazione e sensibilità, di incidere nelle relazioni umane: non dobbiamo estraniarci, è fondamentale stare dentro le necessità dei più deboli, avere occhi che ascoltano, cuori che pensano per intercettare i bisogni della gente, soprattutto dei più poveri. Ed è un desiderio che va a sposarsi al sogno di un futuro migliore".

Quindi la aspetta un impegno ancora maggiore?

"Assolutamente sì. Per chiudere vorrei che ci fosse un'attenzione ancora più chiara per questi ragazzi che sciupano la loro vita, per questa umanità che si perde. C'è ancora troppa droga e troppe poche strategie di prevenzione: anche nelle comunità di recupero faticano davanti a questo silenzio e di fronte all'onda alta dei bisogni. Droga se ne sta consumando sempre di più, il mercato degli stupefacenti riesce a trovare le sue strategie raffinatissime anche e nonostante la pandemia, è davvero impressionante. E creare futuro rispetto a questa realtà significa mettere in moto la politica, le istituzioni e il sentire della gente perché non è un'impresa per navigatori solitari. O si va insieme, tutti uniti, o non si arriva all'obiettivo".

L.P.
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