Quante volte sarà accaduto? Innumerevoli. Due bambine giocano insieme e finiscono con il litigare. La mamma interviene: le separa, traccia una linea in terra e impone a ciascuna di giocare al di qua del proprio confine. Dopo un po’, ognuna comincia a far domande all’altra e, varie risate dopo, entrambe strepitano affinché possano riunirsi. Un uomo le guarda dalla finestra e si chiede: «Non sarà che i confini li tracciamo unicamente per poter desiderare l’altro?».

Quando si dice la potenza della letteratura. Con questo siparietto, che trasfigura in un dissidio infantile tutti i conflitti dell’umanità, si apre “La buona condotta” (Crocetti Editore), l’ultimo libro di Elvira Mujčič, autrice italo-bosniaca, questi giorni in Sardegna, ospite del festival Éntula, organizzato dall’associazione Lìberos e progetto InCoros.

La sua storia si ispira a una vicenda del 2012, ma un fatto simile è accaduto anche da poco.

È notizia di pochi giorni fa che i serbi del nord del Kosovo si sono radunati davanti ai municipi di alcune città per protestare contro l'elezione di nuovi sindaci di etnia albanese e per chiedere il ritiro delle unità di polizia kosovara. Il conflitto tra i due gruppi etnici però, va avanti da circa trent’anni.

Nel romanzo è incarnato da due personaggi che si contendono lo scranno del primo cittadino di un piccolo paese.

La storia è ambientata in un villaggio in cui gli albanesi sono 1362 e i serbi 1177. A essere eletto è un serbo che vuole andare d’accordo con gli albanesi, ma a Belgrado

non va bene, e mandano un nuovo sindaco il cui scopo è continuare a soffiare sul fuoco nella rivalità etnica. Il suo arrivo non porta solo scompiglio politico, ma stravolge le vite dei protagonisti.

Lei crede che sia possibile una mediazione?

I Balcani sono una sorta di passaggio liminale dove si incontrano le politiche internazionali, per cui serbi e albanesi non sono gli unici interlocutori: la Serbia è vicina alla Russia, il Kosovo è un protettorato della Nato. Una soluzione può configurarsi solamente a livello internazionale.

Nel libro indica una via...

La letteratura ha il potere di leggere la realtà in modi nuovi, e nel romanzo c’è un personaggio femminile, Ludmila, che incarna una possibile via da percorrere per giungere a una soluzione.

Quale?

Ludmila è un personaggio ispirato a una donna che conobbi quando arrivai in Italia, in fuga dalla guerra nell’ex Jugoslavia, circa vent’anni fa. È considerata la matta del paese, parla in rima, e lo fa per togliersi da questa dicotomia di odio e ricerca di un nemico.

La sua forza è il linguaggio. 

Sì, perché lei usa parole diverse da quelle dei suoi compaesani e, siccome le parole definiscono la realtà, il suo dire suggerisce che per uscire dalla dinamica cristallizzata del conflitto, che immobilizza le parti in uno status quo distruttivo, occorrono parole nuove e diverse da quelle usate finora.

Il romanzo inizia parlando di confini. Perché, in un mondo dove è facile spostarsi, i confini sono strenuamente difesi?

Perché la globalizzazione, che ha facilitato gli spostamenti, lo ha fatto per moltiplicare il consumo, e non per agevolare l’incontro tra le persone.

Lei vanta due appartenenze: italiana e bosniaca. Come le mette in dialogo?

All’inizio pensavo di dover scegliere l’una o l’altra, come se dentro di me ci fossero due identità granitiche che non potessero dialogare. È stato un lavoro di mediazione lungo una vita per accorgersi, infine, che si può stare nella complessità, nelle ibridazioni che la migrazione porta con sé.

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