«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia».  Lo dice Lorenzo Milani. Le sue parole e la sua azione sono sempre rivoluzionarie, ancora oggi, a cento anni dalla nascita. Al presbitero a cui è legata l’esperienza umana e culturale della scuola di Barbiana, Alberto Melloni, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia e accademico dei Lincei, ha dedicato “Storia di μ – Lorenzino don Milani” (Marietti1820, 199 pagine).  Al centro dell’attenzione una figura amata e discussa.  Non è la prima volta che Melloni analizza i molteplici aspetti della vita dell’educatore fiorentino.

Chi è don Milani?

«È stato a lungo utilizzato in funzione polemica come una sorta di passepartout per dire quello che la scuola doveva fare o non fare, sia in funzione di capro espiatorio come se fosse stato lui a far perdere alla scuola il carattere autoritario che molti ancora rimpiangono. È una figura molto particolare da inserire nel suo tempo. È un ebreo convertito, sopravvissuto alle leggi razziali perché la madre, in modo geniale, decide di fare un matrimonio cristiano e di far battezzare i figli in tempi non sospetti. Una volta diventato cristiano, è attraversato da un’ansia evangelica fortissima. La sua lezione è quella di stare in un tempo diverso da nostro e di poterci dire delle cose che riguardano la forza e la verità con le quali ciascuno di noi è chiamato a vivere la propria esperienza umana e sociale».

Con le sue idee ha cambiato per sempre la scuola e il mondo dell’istruzione.

«Per la scuola l’esperienza di don Milani è quasi un paradosso. La sua è una scuola privata, fatta da un prete in modo abbastanza autoritario, che è diventata il paradigma di una scuola pubblica aperta e capace di riscattare le classi sociali. Don Milani capisce, nel suo tempo, sia di fronte agli operai di Calenzano sia di fronte ai contadini di Barbiana, che c’è un’ingiustizia silenziosa e profonda che attraversa la società italiana. Un’ingiustizia che riguarda la parola. Il possesso della parola, con la possibilità di comunicare, di esprimersi, di intendere e di intendersi, è la cifra di cittadinanza più vera. È convinto che senza la consegna di questa parola, che costituisce un gesto umanizzante, null’altra cosa, anche  l’evangelizzazione, possa avere un significato. Chiede alla scuola di consegnare la parola a chi ne ha bisogno. Tutto questo ha avuto nella società italiana un forte impatto che non è venuto meno. Don Milani ha infranto il dogma che il destino sociale si tramandasse di generazione in generazione come un fatto ineluttabile. Con lui si è fatta strada l’idea che poteva esserci una scala sociale in grado premiare il vero merito. Il nostro è un tempo storico diverso, ma penso che le sue idee, sotto questo aspetto, siano ancora attualissime».

Nel libro ci sono richiami ad alcune canzoni di Fabrizio De Andrè. Perché ha fatto questa scelta?

«Le canzoni di De Andrè sembrano didascalie della vita di don Milani. C’è l’intensità del poeta che coglie qualcosa di profondo».

È un azzardo associare la figura di don Milani al pontificato di Francesco?

«Francesco è il primo Papa che da giovane ha letto don Milani. Di sicuro c’è in lui una passione per i preti che hanno vissuto non semplicemente una marginalità dottrinale, una marginalità dovuta a un contatto spericolato con i poveri e questo è un tratto caratterizzante del suo pontificato».

Perché nel titolo c’è la lettera greca μ ?

«Ho deciso di non utilizzare in tutto il libro la parola “don Milani” perché mi sembra una sorta di hashtag ante litteram molto banalizzato quasi per anestetizzare il contatto con una figura ustionante. Molte delle persone che oggi parlano di lui sarebbero uscite scottate dal dialogo con un uomo adamantino nel suo radicalismo, persino nella violenza profetica del suo dire e del suo fare. Mi è sembrato utile far sapere al lettore che questo non è il 174esimo libro dedicato a don Milani, in occasione del centenario della nascita, per parlare di lui e della sua esperienza, ma una ricerca storica più complessa per rimetterlo al suo posto e riuscire a percepirne la forza che intimidisce, la forza che c’è dentro quest’uomo».

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