Anna è una bambina dei nostri tempi. Frequenta le scuole elementari. È allegra, piena di vita, circondata dall’affetto della sua famiglia, composta, oltre che dai genitori e dal fratello, dai nonni, dagli zii e dai cuginetti.

È ebrea ma non si è mai molto interessata alle proprie origini e neppure alle vicende dei suoi cari.

A incuriosirla è però un fatto stranissimo: sua nonna Miriam, così golosa di solito, non ama le buccette d’arancia caramellate che il nonno prepara in maniera divina. Un mistero che la bambina prova a svelare calandosi nei panni di una vera e propria detective.

Per raggiungere il suo scopo dovrà, infatti, ricostruire pezzo dopo pezzo la storia di sua nonna che, quando era bambina come lei, ha vissuto sulla sua pelle il dramma della Shoah.

Assieme ai familiari ha dovuto nascondersi, patire la fame, fuggire in Svizzera, dove alla fine raggiungerà la salvezza e il mistero della buccia d’arancia troverà la sua spiegazione.

È questo il filo narrativo lungo il quale si dipana Il mistero della buccia d’arancia (Einaudi Ragazzi, 2017, Euro 11,00, pp. 120) della scrittrice e giornalista Lia Tagliacozzo.

Un racconto che sembra fatto apposta per descrivere il nostro passato più doloroso alle giovani generazioni.

Il suo libro racconta una storia che ha radici personali profonde?

Sì, l’ispirazione nasce dalla mia vicenda personale. Io sono ebrea e lo sono anche i miei genitori, ed entrambi hanno attraversato la guerra. Loro due sono sopravvissuti durante quegli anni terribili ma non tutti i loro parenti hanno avuto questa possibilità. Inoltre vengo da una famiglia dove non si parlava molto di quello che era accaduto e quindi la storia della bambina che pezzetto dopo pezzetto ricostruisce il puzzle delle sue vicende familiari è un poco anche la mia.

È stato difficile recuperare e tradurre in un libro queste vicende?

Quando ho scelto di raccontare questa storia mi sono resa conto che non ero in grado di trovare le parole giuste per narrarla. Ho dovuto prima di tutto mettermi in ascolto. Come fa la bambina che nel mio libro si fa raccontare la storia dalla sua nonna. Solo così sono riuscita a dar voce a quelle vicende.

Nel libro si coglie il desiderio di narrare iper essere immediatamente comprensibili a un bambino, quasi un approccio didattico. È frutto di una scelta precisa?

È una storia per bambini pensata per loro. È quello che avrei voluto sentirmi raccontare quando ero piccola, una vicenda pacificata, in cui i protagonisti hanno ritrovato una serenità di fondo. Nella realtà non sempre accade. Un certo approccio didattico c’è perché andando da anni nelle scuole per parlare della Shoah mi sono accorta che non bisogna mai dare nulla per scontato.

Cosa racconta?

Bisogna raccontare quello che è successo anche se è stato ripetuto più volte. E poi occorre mettersi all’altezza dei bambini, guardarli negli occhi perché la memoria è un fatto individuale, deve nascere dalla scelta di ognuno di noi di farci carico del passato, conoscendolo e non facendolo cadere nel dimenticatoio.

Il 27 gennaio si celebra il Giorno della memoria e quello del ricordo della Shoah è un tema ancora più centrale, oggi che i testimoni oculari sono sempre di meno. Come si può tenere viva questa memoria?

Prima di tutto con lo studio. Bisogna continuare ad analizzare quello che è accaduto, studiare la storia e interrogarla criticamente per capire quel processo, tutto interno alla vicenda storica dell’Occidente, che ha portato al fascismo, al nazismo, alla persecuzione e poi alla soluzione finale. Oggi abbiamo una mole immensa di documentazione di ogni tipo e va continuamente esaminata. Complementare è l’invenzione artistica: arte, pittura, fotografia, letteratura, musica e cinema sono fondamentali per tenere viva la memoria. Ci possono aiutare a ricordare e a decidere come comportarsi oggi. La memoria, infatti, serve per decodificare il presente alla luce del passato.

Roberto Roveda

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