F emminicidio: neologismo nato per rabbia e reazione a uno dei fenomeni delittuosi più odiosi e ricorrenti. Coniato da una femminista americana circa trent’anni fa è entrato nel lessico italiano da poco più di un decennio. Intende diversificare, per genere, il millenario termine latino homicidium composto di homo e cidium, derivato da caedere, ossia uccidere. Intendendo homo come radice di humanitas i latini non fecero distinzione: era omicida chi uccideva un uomo oppure una donna. Indistintamente. Così è stato anche per noi fino a poco tempo fa, come confermano i vocabolari. Ne parlo perché in questa fine estate i “femminicidi” sono aumentati. Delitti spesso atroci. A commetterli, uomini a loro dire innamorati. Amori tossici, che alimentano il veleno dell’odio. Spesso sono soggetti tanto deboli di carattere quanto feroci. L’umiliazione del rifiuto o dell’abbandono sono per loro insopportabili, tanto che certuni poi si uccidono. Meglio sarebbe un’inversione della sequenza: prima il suicidio. Chiamare questi delitti “femminicidi” non è stato un deterrente. Anzi, pare avere esaltato la follia di certuni. Abbiamo soltanto violentato la lingua italiana cedendo a un’imposizione del politicamente corretto. “Femminicidio” è parola impropria. Chi lo commette non uccide una femmina, uccide una donna.

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