S i chiamava don Mario il parroco di sant’Eulalia, la chiesa da me frequentata negli anni della mia adolescenza. Le sue prediche erano spesso sorprendenti, non infarcite di alta dottrina. Si esprimeva con il linguaggio degli umili e tutti lo capivano: i giovani e gli anziani, i fedeli di poca cultura e le persone colte. In una limpida domenica di fine settembre io e altri ragazzi arrivammo in chiesa in ritardo. Se ne accorse, e durante la predica disse: «Vi capisco, ragazzi. A settembre siamo tutti pigritanti». Pigritanti. Questo termine mi suonò armonioso all’orecchio e alla mente, mi piacque. Lo cercai su diversi vocabolari, ma non lo trovai. Non c’era. Molti anni dopo m’imbattei leggendo un articolo sportivo nella parola pigritudine, anch’essa ignorata dai vocabolari. Mi parve fascinosa, la adottai e la spesi come una moneta di nuovo conio. I linguisti hanno dimostrato che le parole emergono laddove e quando servono. La pigritudine non è pigrizia. É, piuttosto, il deliziarsi della pigrizia, è un momento di beatitudine, è compiaciuto abbandono, un dolce far niente trasognante. È la cugina povera, ma dignitosa e intrigante, del blasonato ozio creativo. In una società nevrotica come l’attuale una moderata pigritudine è una parentesi di serenità; un refolo fresco nelle giornate sciroccose di questo settembre declinante.

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