U n anno fa i generali russi partivano per l’Ucraina mettendo nel bagaglio l’alta uniforme che di lì a tre giorni avrebbero dovuto indossare a Kiev alla parata della vittoria. Un anno dopo gli ucraini combattono ancora, e pezzo per pezzo hanno ripreso molta della patria che era stata rubata. Noi abbiamo dato e stiamo dando loro una mano in termini finanziari, politici e di equipaggiamento militare. E ciascuno di noi a modo suo sta sostenendo un prezzo, visto che per esempio se non ci fosse questa guerra pagheremmo meno il carburante. Evidentemente è un sacrificio irrisorio se lo paragoniamo a quello di chi rischia la pelle in trincea, o viene annientato da un missile sparato sul suo palazzo. Eppure ci pesa, perché il paragone che ci viene più naturale non è fra noi e gli ucraini, ma fra i noi di un anno fa e i noi oggi. Se la cosa più sorprendente è che un anno dopo gli ucraini lottino ancora, quella più deprimente è che noi ci stiamo stancando prima di loro. Berlusconi non è rimbambito: non insulterebbe Zelensky se non fosse certo, sondaggi alla mano, che una parte consistente del Paese vuole sentirsi dire quelle cose, per vestire di politica la propria voglia di placidità. Un anno dopo, il campo di battaglia toccato in sorte a noialtri rimane ancora e soltanto la coscienza delle persone. È il meno pericoloso, per questo disertare sarebbe una vergogna.

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