I eri tra i pensieri sparpagliati ispirati dall’agonia della regina c’era anche questo: a modo nostro potremo dire di essere stati pure noi gente dell’età elisabettiana.

Anche chi non sa l’inglese, anche chi non ha visto “The Crown”, anche chi ha sempre fatto spallucce davanti all’inesauribile fotoromanzo di casa Windsor non può credere che la monarca per eccellenza non abbia segnato il nostro tempo. Un po’ per il talento di barcamenarsi fra lo status di icona e quello di mascotte senza scomporsi di un millimetro. Un po’ per la capacità di muoversi con ieratica disinvoltura tra le sale e i salotti di Buckingham dove due ombre si incrociano senza disturbarsi, quella solenne dell’impero passato e quella imprevedibilmente gozzaniana del tè, delle porcellane e dei cagnetti. Un po’ – anzi molto, inconfessabilmente molto – perché la scuola dell’obbligo ci ha insegnato a considerare “un’età” lo spazio fra due guerre. E quindi vedere al passo dell’addio Elisabetta, che da ragazzina restò nella trincea di palazzo reale a sfidare le bombe tedesche, fa temere che una parentesi storica si stia chiudendo con un cigolio da portone reale.

Quel che arriverà sarebbe bello, o almeno giusto, affrontarlo con una delle parole più frequentemente associate ai suoi settant’anni di regno: decency. Non a caso è più facile tradurla in latino che in italiano.

© Riproduzione riservata