A ttenti a metterci una pezza, sugli sbagli: spesso è peggiore del danno. L’insulto non è nobile, però è personale. Dare del cretino definisce in modo specifico: è te, che denigro, ma hai l’arsenale della reazione: un sagace «cretino, sarai tu», o uno spericolato «specchio riflesso», sono micidiali contrappesi. Diversa è l’offesa “di rimbalzo”, come sanno bene le mamme, insultate attraverso la prole: è il campo larghissimo del «figlio di», assai stupido oltre che volgare.

E poi c’è «negro», l’insulto razzista: colloca l’insultato in un gruppo di 1,6 miliardi di persone nel mondo, compreso un ex presidente degli Stati Uniti. Non granché, come offesa. Qui l’insulto è l’intenzione, non la parola in sé, che infatti un tempo si usava col sorriso (citofonare Vianello: “Siamo i vatussi”).

Dunque, «negro». L’interista Francesco Acerbi l’avrebbe detto a Juan Jesus, del Napoli. Poi si sarebbe scusato, subito perdonato. Però in seguito ha negato di averlo detto. Infine, sperando di metterci una pezza e invece peggiorando la situazione, avrebbe precisato che, per lui, «negro è un insulto come un altro». Invece no: infatti un colore (della pelle) a lui ne è costato un secondo: l’Azzurro della Nazionale, che a ’sto giro lo lascia a casa. Al diavolo i colori, allora. Meglio i nomi: non si poteva battere uno che si chiama Jesus. Soprattutto, non poteva sperarci un manifestamente non pronto Acerbi.

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