“Sono partiti prima della mezzanotte. Nonostante le grida che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andarsi a rifugiare nei loro possedimenti in campagna” (cfr. A. Manzoni).

Non si tratta di Peste, ma ora come allora, l’emergenza sanitaria indotta questa volta dal diffondersi di quello che sembra essere il mostro del secolo, il coronavirus, per un verso, fino a qualche giorno fa, ha ispirato nei residenti delle ex zone rosse del Paese, quelle del nord per intenderci, il desiderio di fuggire lontano per portarsi al riparo in qualche altra regione forse a torto ritenuta più sicura, per altro verso, e per converso, ha ispirato al sud, e nelle isole, un altrettanto pericoloso sentimento di chiusura, di esigenza di difesa dei confini regionali, e territoriali locali, sfociato in atteggiamenti odiosamente colpevolizzanti ed ostracizzanti che sono l’humus ideologico, per loro stessa natura, nonché l’anticamera idonea, a favorire il diffondersi non solo del nazionalismo, ma anche di un incomprensibile, perlomeno ai miei occhi, regionalismo di circostanza.

Qualcuno potrebbe convincersi del fatto che non ci sia nulla di male in questo. Ma ne siamo davvero sicuri? Davvero il paradigma “mors tua vita mea” ci può salvare in questo momento di difficoltà? L’esaltazione esasperata, quindi patologica, dell’attaccamento al proprio paese e la mai abbandonata tendenza a promuovere l’autonomia delle regioni attraverso visioni particolaristiche dei problemi spesso in contrasto con lo stesso interesse nazionale, è attualmente concepibile e soprattutto idonea a giustificare le divisioni territoriali interne? E poi, ora che l’Italia è interamente zona rossa, vogliamo veramente barricarci anche rispetto al resto del mondo, accentuando comportamenti e sentimenti di razzismo, che peraltro non ci sono mai appartenuti, rinunciando così alla ricchezza socio culturale del cosmopolitismo, il quale, a sua volta, non solo ha sempre rappresentato una caratteristica squisitamente italiana, ma ci ha resi famosi nel globo?

Premesso che è cosa buona e giusta non sottovalutare la situazione contingente, e che è assolutamente indispensabile adottare ogni precauzione utile ad evitare il contagio a catena determinato da potenziali atteggiamenti irresponsabili di chiunque dovesse trascurare il comune senso civico che, all’evidenza, farebbe implodere il servizio sanitario nazionale, e non solo, con gravissimo pregiudizio per la salute pubblica, resta tuttavia di primaria importanza non lasciarci andare alla paura del prossimo, del diverso, dell’emarginato, del bisognoso, giacchè, ben lungi dal voler essere buonisti a tutti costi, è innegabile che la chiusura e l’ostracismo di oggi li pagheremo domani e, purtroppo, in questa situazione, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Intanto, perché, diversamente da quanto mostrano di ritenere i leader per così dire patriottici, Salvini in particolare, e diversamente da quanto ritenuto dal Governo, che ha pensato bene di estendere i divieti a tutta l’Italia, ogni limitazione della libertà di movimento, i costanti e discutibili appelli contro i porti aperti, e la chiusura verso soprattutto la Cina, hanno più il sapore delle soluzioni di chi non ha soluzioni, piuttosto che di un rimedio efficace, utile e motivato, soprattutto in un momento in cui proprio un esponente della Lega, come Zaia, politico di grande esperienza, dopo le vicissitudini legate alle frettolose dichiarazioni sugli oramai famosi topolini dei mercatini cinesi, ha, al contrario, dato prova di eccellente acume diplomatico e di apertura ideologica inviando al governo cinese le proprie scuse.

Quindi, perchè noi stessi siamo stati vittime, siccome ritenuti gli untori d’Europa, di una satira d’oltralpe davvero di cattivo gusto diretta non solo a declassare gli italiani a “cinesi d’Occidente”, quasi fosse una maledizione, ma anche a colpire le nostre eccellenze alimentari per ossigenare, almeno così mi sembra, una guerra commerciale senza esclusione di colpi. Poi, perché, all’evidenza, “la guerra” tra le più disparate forme di nazionalismo patologico residenti in Europa, il sentimento di profonda inimicizia verso il nostro “vicino”, nonché la chiusura in chiave incautamente difensiva delle frontiere nazionali e regionali, rischia di ripercuotersi pesantemente proprio sul nostro debole Paese, che più di altri, nel sistema unionale e mondiale, viene troppo spesso fatto oggetto se non proprio di pregiudizi inaccettabili, comunque di scarsa considerazione proprio a cagione delle profonde divisioni interne che ne hanno indebolito l’intero apparato politico. Infine, perché, diversamente da quanto in molti pensano, per esaltare l’assolutismo nazionalistico, e farne una bandiera, occorre essere forti e strutturati, a differenza dell’Italia di oggi, pena il rischio di restarne travolti, perché come disse in un recente passato il lungimirante Mitterrand, “il nazionalismo è la guerra” e noi, in particolare, non possiamo permettercela, né credo la vorremmo nel nostro futuro.

Non ho soluzioni in tasca, né ho la pretesa di averne. Non credo però che la soluzione risieda nell’impedire in senso drastico la libera circolazione delle persone, soprattutto quando la chiusura medesima ha il sapore di misura residuale determinata dall’incapacità della politica tutta di procacciare anche solo le mascherine di protezione. Credo, invece, che l’unica via d’uscita sia quella di adottare un atteggiamento responsabile rispettoso delle regole base pur restando aperti al prossimo e solidali. Il senso di responsabilità di ciascuno di noi e di condivisione, anche della paura, resta l’unica vera chiave di svolta perché “in questo mondo piccolo oramai gli altri siamo (anche) noi.

Giuseppina Di Salvatore

(avvocato Nuoro)
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