Il sultano turco ha gettato la maschera, semmai ce ne fosse stato bisogno, per mostrare senza infingimenti il volto del feroce dittatore. Recep Tayyip Erdogan ha trovato a pieno titolo il suo posto nella galleria dei leader "cattivi" che hanno segnato nel sangue il destino dei popoli mediorientali dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi.

Pare naturale affiancare il suo volto luciferino a rais arabi quali l'iracheno Saddam Hussein, il siriano Hafiz al Assad e ora il figlio Bashar, che hanno dominato col terrore e con il sistematico massacro di etnie considerate nemiche, a partire proprio dai curdi. Un popolo di 70 milioni di persone diviso e disseminato nella vasta regione del Kurdistan compresa tra quegli Stati. A questi satrapi si aggiungono i vari presidenti iraniani che, da Khomeini in poi, hanno contribuito al clima di guerra e di terrore nell'area più bollente del pianeta.

Tutti costoro si assomigliano per il modo con cui hanno mantenuto il potere, giocando sul tavolo della politica internazionale con disinvoltura e opportunismo dove le alleanze si fanno e si disfano secondo il momento. E qui i grandi del mondo hanno le loro responsabilità, spinti da interessi strategici ed economici. Dietro le guerre contro il terrorismo, dalla prima in Iraq nel 1991, emerge il business immenso del petrolio, delle armi e della ricostruzione dopo le distruzioni. Ai primi di ottobre Erdogan ha preparato la sua mossa annunciando le intenzioni bellicose.

Ha ottenuto il via libera da un Trump sempre più schizofrenico nella politica estera, ed è passato all'azione attaccando i curdi. Non si fermerà, lo ha detto e ne siamo certi, sino alla conclusione del suo piano: conquistare una larga fetta di territorio siriano, lunga cento chilometri e profonda trenta, dove ricollocare due, tre milioni di siriani transfughi dalla guerra e raccolti nei campi della Turchia meridionale. Ma per fare questo occorre sacrificare i curdi, costretti a lasciare le loro terre e a cercare uno spazio vivibile in quella stessa Siria che da sempre gli emargina e combatte.

Col beneplacito degli americani che prima hanno armato i curdi contro l'Isis mandandoli allo sbaraglio, e poi li hanno traditi abbandonandoli al loro destino. I Paesi occidentali hanno fatto sentire a parole la loro indignazione e hanno intimato ad Erdogan di fermarsi. Ma senza alcun risultato concreto. La solidarietà ai curdi dalle piazze, le minacce di embargo economico servono a ben poco, anzi hanno fatto crescere il consenso interno e la popolarità di Erdogan il quale, con l'arroganza del tiranno, ha ribaltato la realtà dei fatti e il significato delle parole.

È lui, in qualità di membro della Nato, a chiedere supporto politico e militare agli alleati contro i curdi che definisce terroristi. Proprio loro, gli eroici peshmerga dell'Ypg, che hanno sconfitto quasi da soli gli jihadisti dell'Isis, vengono ora chiamati terroristi e bombardati duramente. Il mondo sta a guardare. Non bastano i moniti, le risoluzioni dell'Onu, gli annunci di dazi doganali o le chiusure di mercati.

Erdogan ha gli arsenali stracolmi, le casse piene ed è pronto ad aprire le porte ai cinesi e al nuovo “amico” Putin. Dobbiamo rassegnarci ad assistere impotenti ad un massacro in diretta tv? È avvenuto in passato, in altri scenari ma con molte analogie storiche, nell'ex Jugoslavia. Con il beneplacito di Trump e Putin, siamo convinti che l'offensiva andrà avanti e si fermerà solo quando Erdogan avrà incassato l'intera posta.

Oggi possiamo solo pensare che la Turchia resterà a lungo fuori dall'Ue alla porta della quale continuava a bussare da anni chiedendo l'ammissione e bloccata sinora dal veto francese. Per entrare in Europa - pretende giustamente Parigi - Istanbul dovrebbe ammettere il genocidio degli armeni nel 1915, cosa sempre negata dai leader turchi. Ma resta comunque aperta la questione della Nato, dove la Turchia vanta la seconda forza militare per uomini e mezzi. E questo per gli alleati occidentali è il problema più impellente su cui tutti, a cominciare da Trump, dovranno fare i conti.

CARLO FIGARI
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