Il vero tabù in Italia è quello delle tasse. Nel senso che ragionare su come ridurle cospicuamente è quasi impossibile.

Se proponi un dibattito sull'argomento, puoi star certo che la stragrande maggioranza di commentatori ed economisti si troverà d'accordo nel ripetere il solito mantra. Ovvero: diminuire la pressione fiscale significherebbe aumentare ancora di più il già enorme debito pubblico e mettere a rischio l'erogazione di servizi indispensabili ai cittadini, in primis sanità e istruzione.

Obiezioni fondate, ovviamente, ma non insuperabili. Credo infatti che ci troviamo di fronte al classico caso del cane che si morde la coda. Perché il nostro Pil, l'occupazione, l'equilibrio dei conti del welfare sono in difficoltà proprio perché gli eccessivi carichi fiscali (arrivati a livelli mostruosi) frenano ogni possibilità di ripresa.

Al cospetto di una crisi che è ormai endemica assistiamo pressoché inermi all'agonia del ceto medio, quel piccolo grande esercito di formiche italiane che ci ha sempre tenuto in piedi e i cui risparmi hanno consentito agli analisti di concludere che siamo una nazione solvibile ed economicamente solida, nonostante tutto. Ma ora quella fascia di popolazione non spende più poiché non è in grado di farlo. Ciò frena lo sviluppo, e come conseguenza assai indesiderata, i presupposti per ulteriori tasse, che vanno solitamente a gravare sui costi del lavoro e soprattutto sulla casa, da sempre il bene primario degli italiani. E però bloccando l'edilizia viene immobilizzata la leva principe della nostra economia.

L'edilizia abitativa, infatti, richiede l'utilizzo di tanti di quei materiali (cemento, ferro, acciaio, alluminio, ma anche rubinetteria, laterizi e impianti di ogni tipo) da generare automaticamente un grande indotto collaterale, anche in termini di manodopera.

Se su questo aspetto siamo d'accordo, eccoci alla domanda delle cento pistole: dove si trovano le risorse necessarie per attuare uno shock fiscale? Prima di provare a dare una risposta plausibile premetto che, a mio avviso, la prima versione della flat tax proposta dalla Lega è sin troppo moderata. Non a caso Salvini in questi giorni pare volerla rimodulare. Uno shock che produca effetti immediati dovrebbe comportare un taglio generalizzato di almeno il 10 per cento della pressione fiscale, facendo capire all'opinione pubblica che la strada delle riduzioni è tracciata per un arco temporale ampio.

Le ipotesi sono molteplici ma la via maestra è quella che conduce ai tagli di spese improduttive, ponendo mano a quella spending review tante volte annunciata ma mai compiuta e che ha già bruciato le carriere di cinque commissari.

Si dovrebbe partire, come ha scritto recentemente Daniele Capezzone, "dai tagli lineari ai ministeri (saranno sgradevoli, ma funzionano) e da una limatura agli acquisti di beni e servizi della Pubblica Amministrazione". Non solo tagli orizzontali, ma una ricostruzione radicale dei processi di funzionamento dello Stato. Ad esempio nessuno parla più della rivoluzione digitale nella P. A. che, secondo studi del Politecnico di Milano, potrebbe procurare un risparmio di 43 miliardi all'anno. Naturalmente bisognerebbe rinunciare al reddito di cittadinanza, a mio parere una misura inefficace ed eticamente sbagliata, e - perché no - contrattare seriamente con l'Unione Europea un po' di deficit.

Il combinato disposto di queste decisioni potrebbe essere sufficiente a ridurre il rapporto deficit/Pil e magari pure di abbattere un pezzettino del debito pubblico? Forse sì.

Di sicuro non c'è soluzione senza un piano che abbia un minimo di ambizione. Se il ceto medio non riacquista la fiducia non sarà mai possibile rilanciare i consumi. E se l'Italia non torna ad essere un posto interessante dove fare impresa il declino sarà inevitabile.

Ecco perché occorre insistere sul taglio delle tasse, a costo di apparire visionari.

Massimo Crivelli
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