In un anno e mezzo, senza il clamore del caso Lambert o degli altri simboli della lotta per il fine vita - da Welby a Dj Fabo - cinque sardi hanno chiesto di interrompere le cure e di spegnere le macchine: stop alla ventilazione meccanica, nessuna idratazione o nutrizione artificiale. E sono morti, come desideravano, visto che la malattia non lasciava altre prospettive.

Il racconto

Nell'Isola sono circa 300 le persone che hanno bisogno di una assistenza di terzo livello, legata a una malattia in fase terminale o a patologie neurologiche degenerative. «Di solito si cerca di restare attaccati alla vita fino alla fine. Anche perché la famiglia, in particolar modo in Sardegna, è sempre vicina e i pazienti non si sentono mai abbandonati», racconta il medico Paolo Castaldi, per diciotto anni primario di Rianimazione al Marino di Cagliari, ora coordinatore sanitario dell'Hospice Monsignor Angioni di Flumini. Almeno sotto questo aspetto l'Isola è un esempio da seguire: «Abbiamo cominciato a riportare a casa i malati di Sla nei primi anni Duemila. La Regione sostiene economicamente le famiglie: questo non esiste nel resto d'Italia, ecco perché si parla di modello Sardegna», ricorda Castaldi. Fino a poco tempo fa non c'era la possibilità di rifiutare le cure. Poi è arrivato Walter Piludu, l'ex presidente della Provincia di Cagliari morto nel 2016 dopo aver chiesto e ottenuto dai giudici il via libera a staccare le macchine che lo tenevano in vita. Anche dal dibattito stimolato da quella sua ultima battaglia è nata la legge sul Biotestamento. «Prima non si potevano interrompere le cure. Una volta accettata la ventilazione meccanica e tutto il resto non si poteva tornare indietro», spiega Castaldi. Qualcuno ha detto no alle cure quando era ancora in tempo: «Un medico, mio collega, affetto da una forma molto aggressiva di Sla. Ha rifiutato il respiratore automatico». Castaldi è cattolico, si dichiara contro l'eutanasia ma a favore della possibilità per i malati terminali di scegliere una finale di vita dignitoso: «Bisogna aver rispetto della sofferenza altrui. Spesso chi parla di questi argomenti non sa cosa voglia dire vivere in un reparto di Rianimazione».

La discussione

A volte a decidere è la magistratura. Come nel caso di Vincent Lambert, 42enne francese tetraplegico dopo un incidente stradale, morto giovedì scorso al termine di una lunga battaglia legale che ha visto contrapposti la moglie e alcuni fratelli (favorevoli alla sospensione delle terapie) al resto della famiglia. La sua morte «non è una sconfitta per l'umanità ma l'epilogo di una storia che ci ha rattristati tutti: l'unico epilogo possibile però, l'unico rispettoso della sua dignità, oltre che della sua volontà», scrivono in una nota congiunta Consulta bioetica, associazione Walter Piludu, Uaar, LItaliaintesta, Centro studi Politeia Milano, associazione Luca Coscioni e associazione Libera uscita. «La storia di Vincent Lambert non può che ricordarci - fatte le dovute distinzioni - quella di Eluana Englaro e, come allora abbiamo accolto con favore la decisione della magistratura italiana di accogliere la richiesta della famiglia di sospendere le cure, oggi non possiamo che fare lo stesso con l'analoga decisione della magistratura francese, che rappresenta una nuova e positiva attenzione alla situazione dei morenti e del diritto a una morte dignitosa».

L'attacco

Dall'altra parte della barricata c'è la costola sarda del Popolo della Famiglia: «In Italia aiutare una persona a suicidarsi deve rimanere un reato perseguibile per legge», scrivono su Facebook i responsabili del movimento, «siamo preoccupati dello scenario giuridico che si sta delineando. Chiediamo una semplice mozione parlamentare, che affermi che i medici non godranno dell'impunità se, anziché curare, forniranno un aiuto a morire al paziente. L'Italia non aprirà le porte al business delle cliniche private come in Svizzera e non lascerà morire di sete un paziente perché ritenuto non guaribile».

Michele Ruffi

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