La "deficite" è una malattia della politica, che in Italia ritorna ciclicamente. A differenza di altre malattie, come la bronchite o la polmonite, che aggrediscono l'uomo, la deficite aggredisce la salute del bilancio pubblico e viene contratta dai politici, coadiuvati da economisti compiacenti. Essa può essere definita come la propensione dei governanti di turno ad aumentare la spesa pubblica in deficit (da cui la sua definizione), non per fare nuovi investimenti, come prescrive la teoria economica keynesiana, ma per finanziare la spesa corrente, da cui ci si aspetta un ritorno positivo in termini elettorali.

La prima ondata di deficite in Italia risale agli anni '80, con i governi di centrosinistra. Allora c'era la lira, di cui qualcuno oggi caldeggia il ritorno. Risale ad allora, infatti, la diffusione incontrollata di questa malattia, che ha causato l'enorme debito pubblico che oggi abbiamo sulla groppa (2.400 miliardi di euro). In quegli anni, il rapporto annuale deficit/Pil non è mai sceso sotto il 10% (oggi le regole europee impongono il 3%) e tali deficit si sono accumulati di anno in anno facendo passare il rapporto debito/Pil dal 57% nel 1980 al 105% nel 1992, quando è scoppiata la prima vera grande crisi finanziaria italiana dei tempi moderni.

Quella crisi pose fine allo SME, il sistema europeo dei cambi amministrati. Per evitare il default (fallimento dello Stato), a giugno del 1992 venne costituito il governo tecnico di Giuliano Amato.

Quando c'è da approvare una pesante manovra finanziaria di lacrime e sangue, i politici di professione preferiscono di solito lasciare l'incombenza a un governo tecnico, di modo che, passato il pericolo, possano dire che non sono stati loro ad approvare le misure restrittive e impopolari, ma necessarie, del risanamento dei conti. Il governo Amato fece una doppia manovra: la prima a luglio di 30 mila miliardi di lire (incluso un prelievo forzoso sui conti correnti bancari del 6 per mille) e la seconda a settembre 1992 di quasi 100 mila miliardi di lire. Complessivamente, quelle manovre corrispondevano all'8% del Pil, che tradotte in valori attuali equivarrebbero a una manovra da 140 miliardi di euro. Insomma, una deficite cronica durata 12 anni venne curata alla fine con l'amara medicina imposta dal governo Amato. Con quella medicina, l'Italia fu salvata dal baratro e, per evitare che il rischio di default si potesse ripetere, venne approvato definitivamente alla Camera, nel successivo mese di ottobre 1992, il Trattato di Maastricht (il cosiddetto vincolo esterno per i futuri governi), che ha dato luogo all'Unione Monetaria Europea (Ume).

Una seconda puntata di deficite venne subita dal nostro Paese nel 2011-12 col governo Berlusconi (fu tolta in deficit l'Ici sulla prima casa) e in coincidenza con la crisi finanziaria globale, che in Italia assunse la forma di crisi del debito pubblico. Anche in quella occasione, i politici di professione lasciarono l'incombenza della cura al governo tecnico di Mario Monti, che fece una manovra da 30 miliardi di euro. Questa includeva anche la riforma Fornero della previdenza, che oggi Salvini vorrebbe nuovamente smantellare.

Infine, le forme più recenti di deficite includono gli 80 euro di Renzi (10 miliardi/anno), il reddito di cittadinanza di Di Maio (6) e quota 100 di Salvini (7), per un totale 23 miliardi all'anno, tutti in deficit. Come dire che anche il governo del cambiamento sulla deficite non ha cambiato proprio niente. La Commissione Ue ha preteso le clausole di salvaguardia sull'Iva, da applicare in automatico proprio per 23 miliardi nel 2020, e 28 nel 2021. Salvini ci vorrebbe aggiungere anche altri 12 miliardi di flat tax, per un totale di 35 miliardi, più le altre spese indifferibili. Perciò, la prossima manovra finanziaria sarà compresa tra i 40-45 miliardi. La farà questo governo o passerà la mano, come ormai è tradizione, a un nuovo governo tecnico che s'incaricherà di fare il lavoro sporco del risanamento dei conti?

Beniamino Moro

(Docente di Economia Politica, Università di Cagliari)
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