Sono poco più di 6900 ragazzi, una classe di scolari grande come un paese che seguono un percorso personalizzato per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto dopo una diagnosi di Dsa, disturbo specifico dell'apprendimento. In Sardegna sempre più famiglie si trovano ad affrontare problemi come dislessia, discalculia, disortografia e disgrafia; il mondo pieno d'ansia dei loro bambini fatto di letterine capovolte e dispettose, numeri impossibili da memorizzare, suoni incomprensibili. Dati in aumento, tanto che dal 2010 a oggi le diagnosi in Italia sono passate dallo 0,7% della popolazione scolastica al 3,6%. Certificazioni quadruplicate anche nell'Isola dove si prevede un incremento delle diagnosi tra il 5 e il 15%.

LA LEGGE MAI FATTA - La diagnosi viene fatta dopo la seconda elementare per avviare il ragazzo a un piano di studio personalizzato, ma se è vero che la scuola e le famiglie sono sempre più consapevoli, va detto che in Sardegna pesano i limiti di una normativa inesistente. Non che una legge non ci sia, ma è quella nazionale, la 170 del 2010, che sollecitava le Regioni a puntualizzare la materia su base territoriale. La nostra è l'unica Regione che non ha ottemperato. "È inammissibile: ci sono tanti aspetti da affrontare, come la prevenzione. È su un quadro più preciso che si costruisce meglio la collaborazione attorno ai bisogni del bambino", dice Luisa Molinas, neuropsichiatra infantile del Ctr di Cagliari, rete di cooperative sociali che gestisce un centro specialistico per l'età evolutiva.

I TEST - Con l'équipe di valutazione composta da uno psicologo, un logopedista e un pedagogista, la dottoressa Molinas è uno degli specialisti che in Sardegna visitano i ragazzi con sospetti disturbi dell'apprendimento. "Facciamo più sedute con test che ci permettono di escludere problemi cognitivi, di valutare le capacità di attenzione, le aree relative al linguaggio, le capacità di lettura, scrittura e calcolo. Arriviamo alla diagnosi entro un mese".

IL DUBBIO - In Sardegna le richieste di diagnosi sono in continuo aumento. Cosa significa? Veramente abbiamo tanti ragazzi con questi problemi specifici o non sarà, invece, che stiamo frettolosamente ribaltando dentro l'ambulatorio medico i tempi di apprendimento di ciascun bambino, ovvero la materia degli insegnanti e dei pedagogisti?

BANCHI ABBANDONATI - "Non è così, nel nostro Paese l'incidenza è peraltro inferiore al resto dell'Europa. Ma anche se ci fosse un aumento delle diagnosi - avvisa Laura Molinas - io direi: grazie a Dio. Ma vogliamo pensare a come finivano tempo addietro questi ragazzini? Stiamo parlando di piccole anomalie che, se non adeguatamente seguite, possono avere conseguenze devastanti nella vita di un bambino". Questi ragazzini, giusto per chiarirlo, finivano - e finiscono, quando non s'interviene - dentro le strade secondarie della scuola italiana prima di ingrossare le statistiche (il picco nazionale lo abbiamo in Sardegna, va ricordato) sulla dispersione e l'abbandono.

IL SOMMERSO - "Per lungo tempo si è sottovalutato il problema e credo che, ancora oggi, il sommerso sia superiore alle previsioni sulle possibili, future diagnosi", dice la neuropsicologa Donatella Petretto, docente dell'Università di Cagliari. Rispetto al passato, aggiunge, "siamo nelle condizioni di individuare con maggiore puntualità il disagio dei ragazzi e creare per ciascuno un percorso personalizzato che tiene conto delle differenze nell'apprendimento".

L'ASSOCIAZIONE - In Sardegna la prima sezione dell'Aid, l'associazione italiana dislessia, è stata aperta a Nuoro nel 2003. "Allora non c'era consapevolezza del fenomeno - spiega la coordinatrice regionale Antonietta Giau -, ma qualcosa è cambiato". Il sodalizio, che cura anche la formazione dei docenti, assiste le famiglie nel percorso verso la diagnosi e nei rapporti con la scuola. "Per questi ragazzi l'ambiente è fondamentale: se tra scuola e famiglia non c'è intesa, diventa tutto più problematico".

SCUOLA E FAMIGLIA - Oggi i docenti sono più preparati a cogliere il disagio del bambino? "Dipende dalla scuola. Sì, sempre più insegnanti frequentano corsi di formazione, ma generalmente non si può dire che i bambini vengano accolti con tutte le loro esigenze". E poi, spesso, c'è la chiusura delle famiglie. "Per un genitore tutto quel che riguarda il cervello spaventa: e così molti preferiscono far passare il proprio figlio come poco bravo a scuola pur di non chiedere una diagnosi".

LA MAESTRA - Salvatora Cottone, insegnante nuorese con 38 anni di esperienza e presidente regionale dell'Aimc (associazione maestri cattolici), dice che "le neuroscienze hanno dimostrato che la dislessia è un problema importante, ma credo che si stia medicalizzando un problema che potremmo compensare con un giusto approccio didattico". Noi insegnanti, dice, "non facciamo diagnosi però dobbiamo stare attenti ai segnali che gli alunni ci inviano. Ma accade che quando avvisiamo i genitori sulla necessità di un consulto, spesso i bambini vengono portati via dalla classe".

NIENTE PEDAGOGISTI - Magari ci sono anche le situazioni ribaltate, con gli insegnanti impreparati e le famiglie che chiedono più attenzione. "I docenti ce la stanno mettendo tutta per formarsi e aggiornarsi. Il punto vero è che viviamo una situazione di grande solitudine, senza nessun sostegno". Nelle scuole, avvisa, "non esiste l'équipe psicopedagogica di cui ci sarebbe davvero bisogno. Noi, in una classe di 20, 25 alunni, abbiamo bambini con problematiche diverse, dal dislessico a quello col papà disoccupato, dal piccolo straniero al figlio di separati. Bambini che hanno bisogno di percorsi scolastici individuali, personalizzati".

Piera Serusi

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