I l capo della Cgil, Maurizio Landini, continua a dire che dalla pandemia bisogna uscire con «un nuovo modello di sviluppo». Questo nuovo modello di sviluppo ovviamente «non può essere lasciato al mercato. Ci vuole lo Stato, anzi lo Stato deve fare quello che le imprese non sono riuscite a fare: investimenti in formazione e innovazione con un ruolo di indirizzo sociale e politico, questo deve fare lo Stato».

Sottinteso: per farlo, lo Stato entri nel capitale delle aziende, nazionalizzandole in tutto o in parte, in ogni caso diventando azionista per poterne meglio condizionare le scelte. La cosa ha indubbiamente una sua razionalità. Per Landini, la priorità è mantenere gli attuali livelli di occupazione: far sì che chi ha un lavoro continui ad avere quel lavoro lì. Le imprese ogni tanto, soprattutto in una situazione di crisi economica, debbono licenziare: devono ridurre i costi per far quadrare i conti, oppure debbono cercare di inaugurare nuove produzioni poiché quelle nelle quali erano tradizionalmente attive non sono più richieste quanto in passato. Questo processo doloroso consente però anche di liberare risorse che vanno poi a finanziare nuove iniziative: sappiamo che è nelle imprese nuove che si creano i nuovi posti di lavoro, a vantaggio dei più giovani.

Lo Stato azionista ha anch'egli la priorità di mantenere i livelli occupazionali: le persone che perdono il lavoro (e non ne trovano un altro) tendono a sviluppare una cattiva opinione sui governanti attuali e quindi a votare per i loro avversari.

I l guaio è che mantenere i livelli occupazionali “a prescindere”, per così dire, non vuol dire inaugurare un nuovo modello di sviluppo. Significa probabilmente rassegnarsi a tassi di crescita più bassi. Da azionista, lo Stato può operare per evitare che le imprese debbano rincorrere il cambiamento ma ciò significa che deve fornire loro risorse. Che le sottragga ai contribuenti attuali (tasse) o a quelli futuri (debito), è improbabile che si tratti di investimenti redditizi: la loro ragion d'essere, per così dire, è proprio quella di mantenere in vita attività che sono diventate anti-economiche.

È improbabile che il pubblico possa fare innovazione, al di là di quella ricerca di base che rientra nel perimetro del finanziamento dell'università. Le imprese innovano non per gusto della ricerca del sapere, ma perché perseguono attività che possano essere apprezzate dai consumatori, anticipandone i bisogni e consentendo loro di fare profitto.

Sul punto, è necessario esser chiari. Chi vuole attingere alle risorse pubbliche di solito ha in mente traiettorie di innovazione, un altro modello di sviluppo, che il privato da solo non sosterrebbe.

Se il privato non lo sosterrebbe, significa che non ce ne è la convenienza. È possibile, naturalmente, che ci siano cose che è importante fare nonostante siano anti-economiche. Ma è un po' difficile sostenere che tutto ciò che è anti-economico sia importante e debba essere fatto. Il nuovo modello di sviluppo di Landini si avvicina pericolosamente a questa idea.

Più che l'idea, però, stupisce la tempistica. Un “nuovo modello di sviluppo” è parola d'ordine che da tempo serpeggia a sinistra, all'interno dei movimenti ambientalisti e non solo. Ma dal capo della Cgil oggi ci si aspetterebbe più prudenza. L'Italia perderà, quest'anno, almeno dieci punti di Pil. L'attività economica privata è in ginocchio. La priorità è far sì che il motore riparta, non cambiare la macchina.

A soffrire di più sono però autonomi e lavoratori delle piccole imprese, che non appartengono al sindacato di Landini. Viceversa dell'intervento a gamba tesa dello Stato beneficerebbero soprattutto i grandi gruppi, alcuni dei quali sono già nel mirino dello Stato azionista. Chi parla di un nuovo modello di sviluppo pensa a sostenere l'occupazione attuale a scapito dell'efficienza. Il Paese avrebbe bisogno esattamente del contrario: più efficienza, nuove iniziative, perché l'occupazione possa tornare a crescere e si possa dare un po' di speranza a chi oggi non riesce a entrare nel mondo del lavoro.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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