T anto tuonò che continuò a tuonare. Larghi settori della maggioranza di governo sono convinti che il rilancio dell'economia italiana passi da un maggiore intervento pubblico nell'economia. Non solo ristori e aiuti emergenziali, ma una presenza (ancora) più strutturata dello Stato imprenditore.

Nell'omonimo decreto “rilancio”, a dare retta alle anticipazione di stampa, c'è un maxi fondo da 50 miliardi di Cassa depositi e prestiti (Cdp) che dovrebbe servire per apporti patrimoniali alle imprese con oltre 50 milioni di fatturato annuo.

Come verrà erogato? Con quali “condizionalità”, per usare una parola che va di moda? Ancora non è chiaro. Da anni la Cassa Depositi e Prestiti è attiva nel private equity, con operazioni talora controverse. Si parla di finanziare la ricerca, e Cdp entra in un'azienda che produce vaccini. Si discute dei limiti dell'hotellerie in Italia, priva ormai di grandi catene che possano competere coi giganti internazionali, e Cdp mette un chip in un gruppo di alberghi di lusso.

Nell'immaginario del politico italiano, la Cassa è una sorta di pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno.

P er questo viene incessantemente tirata in ballo, ben al di là dei suoi compiti: finanziare gli enti locali, impiegare il risparmio postale. Molto spesso a invocazioni accorate sono seguite le più cocenti delusioni. Per quanto cospicue, anche le risorse della Cassa sono limitate. E ancor più lo è il suo patrimonio di conoscenze. Ci troviamo in una situazione economica che dire pericolosa è poco. Il lockdown è stato l'equivalente di una tassa del 100% dei ricavi di due mesi per interi comparti. Al di là dei decreti di riapertura, l'attività economica riprenderà a singhiozzo, il timore del contagio condizionerà la vita delle persone. L'economia è fatta di interazioni sociali: dall'imprenditore che vola all'altro capo del mondo per sviluppare una partnership o acquisire componenti al consumatore che guarda le vetrine e si chiede se un articolo può fare o meno al caso suo. Quando la paura ci impedisce di spostarci e di lavorare, non c'è sussidio che possa rilanciare l'Italia.

Probabilmente siamo all'inizio di una lunga guerra di trincea, nella quale dovremo sviluppare modi nuovi per somministrare certi servizi, nuove modalità di lavoro, protocolli di sicurezza il più possibile tarati sulla singola attività, sulla singola azienda, sul singolo stabilimento. Il pensiero corrente, dalle parti del governo, è che invece sia urgente che il pubblico “entri” nelle imprese private non solo per sostenerle nella difficoltà (cosa che si potrebbe fare con mirate “vacanze” fiscali) ma soprattutto per dirigere i loro investimenti. In piena emergenza riappaiono le parole d'ordine di ieri - sostenibilità - che, giuste o sbagliate che siano, per essere realizzate richiedono un aggravio di costi. Come fare a limitare, per esempio, l'inquinamento è una questione che tutti si pongono. Non esiste però una soluzione universale. Per risolvere un problema è necessario esserci vicino, avere le informazioni necessarie, conoscere le alternative disponibili. Nel migliore dei casi il decisore pubblico ha una visione panoramica. L'impressione è che oggi abbia anche gli occhiali appannati.

I lockdown hanno precipitato l'economia mondiale in una crisi letteralmente senza precedenti. Negli Stati Uniti siamo arrivati ora a 36 milioni di disoccupati. Quell'economia, però, ha la straordinaria capacità di creare occupazione tanto velocemente quanto la distrugge. Non è così in Paesi più ingessati, come il nostro. Che non a caso ha scelto di sospendere i licenziamenti per legge, accontentandosi di posticipare il problema.

Siamo in acque inesplorate. Mai come oggi, servono decisioni ben calibrate, prese sul campo, da chi meglio conosce le circostanze in cui opera, i suoi fornitori, i sui consumatori. Invece l'ideale, fortunatamente irrealizzabile per intero, del governo sembra essere quello di sostituire agli imprenditori dei funzionari. Parafrasando Ruskin, la presunzione può gonfiare uno Stato ma non lo farà mai volare.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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