L eggo come un ossesso, perché dopo una settimana di frequentazione con quaranta scrittori del New York Writers Workshop ospitati a Galtellì e provenienti da tutto il mondo, la mente si è aperta e confusa. Uscire dalla propria “zona di conforto” è sempre traumatico, ed è naturale cercare allora una sintesi, uno scoglio cui aggrapparsi dopo il bombardamento.

La vera cultura unisce (non quella di matrice ideologica, divisiva e miope, che quotidianamente ci propinano per manipolazioni diverse), ma allo stesso tempo lascia esposti e implumi di fronte alla vastità dei patrimoni di conoscenza e di sentimenti che ciascuno di noi apporta. Dal Giappone a Singapore, da New York alla California, dall'India alle Filippine, dal Canada al Messico e Hong Kong, da Londra allo Sri Lanka e all'Australia, l'insieme di valori, di modelli di comportamento, di conoscenze e credenze lascia senza parole. Facciamo parte della stessa, intera umanità, eppure senza aprirci alle altre culture perdiamo una ricchezza senza limite, un'ondata di costumi, tradizioni, mentalità ed espressioni che qualificano e arricchiscono il nostro essere abitanti della terra, creature senzienti e pensanti e perciò anche smarrite.

Leggo il famoso articolo del filosofo Thomas Nagel comparso in The Philosophical Review, “Cosa si prova a essere un pipistrello?”, e rifletto sulle teorie riduzionistiche che vogliono costringerci a un grigio indifferenziato, a un pensiero unico capace di ammantare la nostra variegata realtà e criminalmente schematizzarla.

D a una parte chi ha ragione, senza se e senza ma, perché si ritiene antropologicamente superiore e ha il conforto dell'intellighenzia dominante; dall'altra i pipistrelli. «È la nostra esperienza che fornisce il materiale di base alla nostra immaginazione, la quale è perciò limitata… Io vorrei sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all'altezza dell'impresa».

Leggo Nietzsche e la sua introduzione alla “Genealogia della Morale”: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi - come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?»

Leggo David Grossman quando parla del significato della parola e del peso della lingua: sulla nostra gravano migliaia di anni di storia, ed è lo stesso per tante altre civiltà. Possiamo allora capirci? Possiamo cogliere tutti gli strati che hanno portato alla nostra identità, e apprezzare altre forme di percezione, come il sonar dei pipistrelli?

L'ignoranza ci chiude, è certo, ci rende schiavi. L'apertura agli altri, ai processi culturali, al confronto e al dubbio ci fa invece sentire umili e piccoli, ci spaventa, ma allo stesso tempo ci rende liberi, coscienti. Con la cultura possiamo riflettere, immaginare e progettare. Con lo studio di nuove lingue possiamo schiudere altri mondi, comprendere, raccontare. E con l'amore e la passione possiamo avvicinarci agli altri, trovare le comunanze, sentirsi simultaneamente parte della pienezza della vita e dell'ignoto che ci attende.

Utilizzando ancora l'approccio di Grossman, noi sardi sembriamo appartenere ai popoli che diventano prigionieri della memoria e, ancora peggio per noi, di una storia che ci hanno scientemente cancellato. Siamo preda di sentimenti di dolore che trasciniamo per tutta la vita, ne siamo condizionati. Dovremmo invece mettere in comune le nostre memorie sotterranee, evitando in questo modo di rimanerne schiavi, dovremmo aprirci maggiormente al futuro, al mondo che ci aspetta, e utilizzare con dosi farmaceutiche quella che Nietzsche chiama “dimenticanza”.

Come fare? La risposta ce la dà proprio la settimana culturale trascorsa a Galtellì con scrittori di tutto il mondo. Abbiamo raccontato e parlato di noi, della nostra storia e dei nostri giganti, Grazia Deledda in primis, ma soprattutto abbiamo ascoltato altre voci, un ventaglio di sensibilità diverse, d'identità controverse e spesso tormentate. Ci siamo confrontati, abbiamo dimenticato il nostro ombelico e le chiacchiere di bassa cucina, ci siamo arricchiti. La Sardegna può essere ancora un centro di civiltà e cultura, può avere un ruolo e una speranza. Basta istigazioni al suicidio, noi siamo sardi!

CIRIACO OFFEDDU

MANAGER E SCRITTORE
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