La lezione del Prosecco
Emanuele DessìE vviva le bollicine, evviva il Prosecco, evviva il Made in Italy. In un pianeta, la Terra, dove tutti sono convinti di poter far tutto salvo fermarsi a uno sbiadito tarocco, ecco che il riconoscimento dell'Unesco deve inorgoglire gli italiani, apprezzino gli spumanti o non vadano oltre l'acqua minerale o, massimo della trasgressione, l'aranciata.
Le colline di Conegliano e Valdobbiadene sono diventate patrimonio mondiale dell'umanità. Un'altra botta di vita straordinaria per un vino a Denominazione di origine controllata che, lo scorso anno, prima ancora della benedizione dell'Unesco, aveva venduto 466 milioni di bottiglie. Con un fatturato di due miliardi e mezzo di euro, il Prosecco è il vino italiano più esportato nel mondo. In provincia di Treviso gli ettari coltivati sono 25 mila. Gli stessi che, in Sardegna, ospitano decine di vitigni, autoctoni o di importazione. Dalle nostre parti la superficie è tre volte inferiore rispetto ai primi anni Ottanta, alla vigilia degli espianti selvaggi finanziati da Mamma Europa con trenta denari.
A guidare la buona sorte del Prosecco c'è un sistema unico di tutela articolato in tre consorzi (la Doc e due Docg) ma con un solo presidente: abbraccia migliaia di produttori di cinque province venete e quattro del Friuli Venezia Giulia. Il bollino Unesco è arrivato per la provincia di Treviso, ma tutto l'universo-Prosecco ne trarrà beneficio. E tutti ne sono consapevoli. Che invidia. Da italiani brindiamo al successo delle bollicine del nostro Nord-Est, da sardi guardiamo alle nostre (non sempre nobili) battaglie per valorizzare i territori.
SEGUE A PAGINA 7