Abbiamo imparato a salutarci col gomito, ma riluttanti. Sappiamo che serve a salvarci dal virus, eppure abbiamo nostalgia di quelle forme di contatto a cui eravamo abituati. Da millenni: quasi tre (almeno), nel caso della stretta di mano. La più antica che risulti documentata è probabilmente quella tra un re assiro e uno babilonese, Shalmaneser III e Marduk-zakir I, nono secolo prima di Cristo. Si danno le destre, come sigillo della loro alleanza, in un bassorilievo conservato all'Iraq Museum di Baghdad. Invece le ultime strette di mano della storia, almeno per ora, sono quelle che precedono la diffusione della pandemia da Covid, il contagio planetario, il divieto di toccarci.

Non sappiamo se potremo tornare a baciarci e abbracciarci. Qualcuno ritiene che sarà meglio astenerci anche quando il Covid sarà sconfitto. Anthony Fauci, l'immunologo della Casa Bianca odiato da Trump, ha suggerito di eliminare le strette di mano anche in futuro, per limitare la trasmissione dell'influenza e di altre malattie infettive. Ma che prezzo avrebbe rinunciare al contatto fisico in favore di pratiche più asettiche, in tutti i sensi? Non è come cambiare pantaloni a seconda dei capricci della moda: Shalmaneser e Marduk dimostrano che certi comportamenti sono con noi quasi dalle origini della storia, perché rispondono a profonde esigenze antropologiche.

Per aiutarci a capire la portata del cambiamento in atto, il linguista e sociologo della comunicazione Massimo Arcangeli, docente dell'Università di Cagliari, si è fatto carico di ricostruire la storia dei saluti di contatto: il primo saggio, pubblicato a ottobre 2020, racconta appunto "L'avventurosa storia della stretta di mano-Dalla Mesopotamia al Covid-19" (Castelvecchi editore, 108 pagine). Ma sono già in programma i capitoli sul bacio e l'abbraccio. Con dovizia di immagini, informazioni e curiosità, Arcangeli analizza il significato che ha assunto nei secoli l'unione di due mani.

Storicamente questa pratica esprime lealtà, rapporto paritario, fiducia. Anche se parrebbe nascere dalla diffidenza: nell'antica Roma era normale afferrarsi fino all'avambraccio, per accertarsi che l'altro non nascondesse un coltello sotto la veste. Quasi una perquisizione. In generale, è un gesto capace di avere, a seconda del contesto o delle epoche, una pluralità di significati. Dopo aver mostrato la stretta di pace dei due sovrani mesopotamici, Arcangeli passa in rassegna quelle di commiato sui monumenti funerari greci, la "dextrarum iunctio" con cui culminavano le cerimonie nuziali romane, il "toccamano" che in tempi più moderni segnava invece il momento in cui una fanciulla veniva promessa in sposa a un pretendente. La nostra esperienza quotidiana conferma questo ampio ventaglio semantico. Darsi la mano, Covid a parte, è il saluto più comune; ma negli affari equivale alla firma di un contratto, in una sessione di laurea simboleggia le congratulazioni del maestro all'allievo, dopo una partita a scacchi è la resa cavalleresca di chi perde. Durante la messa è un segno di pace; all'inizio di una partita di calcio la stretta tra i capitani delle squadre promette reciproco fair play, ma dopo il triplice fischio lo stesso gesto tra le stesse persone diventerà asimmetrico per la diversa condizione del vincitore e dello sconfitto.

A volte, come ricorda "L'avventurosa storia", fornisce informazioni su chi abbiamo di fronte. Una tenaglia vigorosa, o all'opposto una mano molliccia e cedevole, trasmettono una prima impressione ben differente. Lo sa bene Donald Trump: il saggio contiene quasi una mini-monografia sullo stile del suo saluto, spesso molto prolungato o rafforzato con l'altra mano, quasi a intrappolare quella dell'interlocutore per stabilire un rapporto di predominio. E a sorpresa scopriamo che non sempre la stretta di mano è stata di uso comune. C'è chi l'ha sconsigliata molto prima del contagio da Covid. Scrive Arcangeli che nel Seicento il francese Jean-Nicolas de Parival, descrivendo gli olandesi, notava che tra loro erano soprattutto i ricchi a praticarla, di solito per comporre una controversia. Nel XIX secolo, in Francia, l'autrice di un manuale di buone maniere invitava a "non abusare" della stretta di mano e a evitarla con i superiori, perché sarebbe apparsa "un atto avventato di pessimo gusto". Fino al bando di Mussolini, che la sostituì col saluto romano, ritenuto "più igienico, più estetico e più breve". Curiosamente anche un sonetto di Trilussa afferma che "a salutà romanamente/ce se guadagna un tanto co' l'iggiene", mentre "la mano asciutta o sudarella/quanno ha toccato quarche porcheria/contiè er bacillo d'una malatia/che t'entra in bocca e va ne le budella". Ma in questo caso l'ideologia fascista non c'entrava.

E comunque il Ventennio è finito. La paura del contagio, invece, continuerà a condizionare anche i nostri gesti più banali? "Non sarà facile sradicare questa angoscia collettiva", riflette ora Massimo Arcangeli: "Credo che torneremo grosso modo alla vita di prima, ma la pandemia lascerà strascichi. Ho la sensazione che ne risentiremo, non ci libereremo in fretta delle sue conseguenze cognitive ed emotive. L'assenza di contatti sociali, anche solo per qualche mese, potrebbe incidere sulla nostra propensione futura al contatto".

Magari resterà di buono la maggiore attenzione all'igiene, ammette il professore: "Però c'è il rischio di accentuare piccoli e grandi traumi, che possono generare fenomeni di panico. Farci avere paura del prossimo anche se non è il caso. Allentare i vincoli di solidarietà sociale. Già oggi, se un vicino di casa ci vede arrivare, a volte cambia strada per evitare l'imbarazzo dell'incontro ravvicinato. Eppure bastano le mascherine e la distanza per restare in sicurezza".

Arcangeli prevede che saranno le generazioni più mature ad avere le maggiori difficoltà: "I giovani sono più flessibili, vivono questa fase meglio di noi. E non perché siano meno consapevoli, come si dice: lo sono molto più di tanti altri, spesso capiscono meglio come gestire i rischi". Per adesso comunque le regole di prudenza continuano a sconsigliare le strette di mano, ma non abbiamo ancora trovato un sostituto soddisfacente. Il saluto col gomito, dopo un'iniziale fortuna, è stato a sua volta ritenuto poco sicuro dall'Oms. E la lettura del saggio di Arcangeli lo ridicolizza definitivamente, rintracciandone il capostipite nientemeno che in Frankenstein Junior: precisamente la scena in cui Gene Wilder (Frederick von Frankenstein) vorrebbe salutare la fidanzata Elizabeth baciandola e abbracciandola, ma lei non vuole sbavare il rossetto, scompigliare i capelli, stropicciare il vestito ("taffetà, caro", battuta cult). E allora si accontentano di un goffo gomito contro gomito. "Mi è tornato alla mente appena ho visto i capi di Stato che si salutavano in quel modo", sorride Arcangeli: "Possono esserci alternative più felici alla stretta di mano, per esempio il namastè. Personalmente preferisco salutare con la mano che batte due o tre volte sul cuore. È un modo più elegante, e riesce a esprimere una certa emotività". Perché sono le emozioni, più di ogni altra cosa, quello che ci manca.
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