“Wish you were here” compie cinquant’anni ma la spinta malinconica e introversa di uno degli album più iconici dei Pink Floyd attraversa le generazioni con un fascino musicale senza tempo. Anche l’immagine della copertina resta un pezzo raro della storia discografica moderna. La stretta di mano tra i due uomini d’affari davanti agli studi californiani Warner di Burbank regala ancora la stessa potenza visiva: Ronnie Rondell, uno dei due protagonisti dello scatto, prende fuoco. Indossa una protezione sul volto, coperta dalla parrucca, ma un colpo di vento sposta le fiamme che bruciano i baffi e parte del viso dello stuntman. La realtà supera la finzione scenica, anche se non ci sono grosse conseguenze al di là dello spavento generale. Un’immagine intensa, lanciata sul mercato internazionale a dare l’idea dell’industria musicale che può “bruciare” sogni e aspirazioni degli artisti.

Il nono album della band inglese

Dietro quell’istantanea leggendaria c’è il nono progetto in studio dei Pink Floyd, che arriva due anni dopo il capolavoro “The Dark Side of the Moon”. Se “La parte buia della Luna” raccontava le nevrosi e le paure dell’uomo moderno, “Wish You Were Here” sposta l’attenzione su un sentimento più forte: l’assenza. La mancanza dell’amico, del contatto umano che si perde nelle pieghe del successo della band proiettata nella dimensione estrema dello star system. Il lavoro, realizzato in gran parte da Roger Waters, viaggia su tre livelli: il declino mentale dell’ex compagno d’avventura Syd Barrett, la disillusione verso un sistema discografico spietato e il senso di alienazione che attraversa il gruppo dopo la conquista della fama planetaria. Il fulcro emotivo del disco è “Shine On You Crazy Diamond”, pezzo struggente diviso in due parti che aprono e chiudono l’album: una sorta di requiem dedicato al genio perduto di Barrett, il fondatore visionario uscito da tempo dal gruppo per un cortocircuito psichico. Gli accordi iniziali della chitarra di David Gilmour sembrano un’entrata nel vuoto: il testo di Waters rievoca la figura della prima mente dei Pink Floyd come un “diamante pazzo” che ha brillato in modo così folgorante da consumarsi in fretta. Poi due brani quasi aggressivi: “Welcome to the Machine” e “Have a Cigar”, feroci nell’accusa a un’industria che stritola gli artisti cancellando la loro sincerità compositiva.

Quel “giro” magico

C’è soprattutto la canzone che dà il titolo all’album e diventa, anno dopo anno, l’inno generazionale del disco. “Wish you were here” nasce da un giro di chitarra che resta inchiodato nella memoria. La mossa geniale di Roger Waters e David Gilmour è l’ingresso su frequenza radio: l’ascoltatore sente un brano disturbato, poi il suono si fa improvvisamente cristallino con la band che prende forma quasi a suggerire il passaggio dall’estraneità alla condivisione. “So, so you think you can tell: heaven from hell, blues skies from pain”. «Pensi di poter distinguere il paradiso dall’inferno, i cieli azzurri dal dolore». Dal 1975 la ballata è diventata presenza fissa nelle classifiche di tutti i tempi e nelle playlist simbolo della band nata a Londra nel 1965. Il «vorrei che tu fossi qui» del titolo non è solo per Barrett: è un pensiero rivolto a chiunque sia sparito, fisicamente o emotivamente. La canzone mette insieme il dolore per un amico perso nella malattia mentale e la sensazione di percepirsi assenti anche in mezzo alle persone. Qui l’album trova forse la sua attualità più marcata, con l’oscillazione tra ricordi, nostalgia e denuncia sociale. Anche la copertina, firmata dallo studio di design grafico Hipgnosis, si sofferma sul tema dell’assenza e della finzione. L’ellepì fu originariamente venduto con un involucro di plastica nera opaca: il prodotto artistico restava coperto come i sentimenti nascosti per paura di essere feriti.

1975-2025

Cinquant’anni dopo l’album dei Pink Floyd torna in scena con la versione large del cofanetto “Wish you were here 50”. È un po’ l’occasione per entrare nel laboratorio dei Pink Floyd e ascoltare come si è costruito, pezzo dopo pezzo, uno dei vertici del rock progressivo. La celebrazione è anche fisica e diffusa: da Londra a Los Angeles, da Milano a Roma si aprono i cosiddetti “pop-up store”, i negozi a tempo dedicati all’album, con proposte esclusive e sessioni di ascolto. Anche mezzo secolo dopo quel «vorrei che tu fossi qui» si propone come il diario di una band al bivio: travolta dalla fama ma ancora libera da permettersi un progetto cupo e anti-industriale. E ancora in grado di trasformare il dolore privato in un linguaggio comprensibile a milioni di persone. Nel tempo delle piattaforme e degli algoritmi social quell’arpeggio di chitarra sembra dire una cosa semplice: quanto spazio lasciamo, nelle nostre vite iperconnesse, alla mancanza, al silenzio, al desiderio che qualcuno «fosse qui».

© Riproduzione riservata