Niente è stato dimostrato, ma gli indizi sono tanti e convergenti. Tutto nasce dal racconto fatto da un’assistente sociale del Minnesota, la signora Angela Webb-Milinkovich, alla storica britannica Fern Riddell, esperta del periodo vittoriano. «La storia con cui è cresciuto il mio parentado», ha riferito la donna, «è che John Brown e la regina Vittoria avevano una relazione romantica. È nata una bambina e da quella bambina è venuta la discendenza della mia famiglia».

Se quel mito di famiglia abbia un fondamento di verità, Angela non sa. Ma Fern Riddell ha indagato sul legame della sovrana con il suo fedele servitore scozzese degli ultimi anni di vita, e il resoconto è il suo nuovo libro “Victoria’s Secret: The Private Passion of a Queen” pubblicato dalla casa editrice Ebury. Sulle tracce dagli antenati di Angela Webb-Milinkovich (Hugh Brown, fratello di John, e sua moglie, Jessie), la scrittrice ha verificato che erano emigrati in Nuova Zelanda nel 1865 e che lì registrarono la nascita una bambina, Mary Ann, unica figlia della coppia. E ancora che, nel 1874, la regina Vittoria pagò loro il viaggio per farli tornare in patria, accogliendoli nella dimora di Balmoral. Quando, dopo la morte del marito la sovrana si trasferì a Windsor, i coniugi Brown la seguirono, proprio come dei familiari a tutti gli effetti.

«Ci è sempre stato detto che eravamo la linea illegittima della famiglia», ha raccontato Angela Webb-Milinkovich a Fern Riddell. Tuttavia, spiega la storica, è difficile dimostrare la nascita di un figlio segreto. Quando si tratta di Dna, scrive, «è molto più complicato e delicato di quanto i media e la cultura ci abbiano fatto credere». La scrittrice non esprime alcun giudizio definitivo sulla vicenda, si limita soltanto a presentare le prove a favore e contro. Quel che invece emerge chiaramente nel suo libro è che famiglia di John Brown sapeva della relazione tra il loro congiunto e la regina Vittoria.

Non si conoscerà mai la vera natura del sentimento che legava la regina più potente del mondo (che regnò dal 1837 al 1901 per un totale 63 anni) e il suo fedele servitore. Certo è che lui - arrivato a Windsor dalla residenza reale di Balmoral nel 1864, tre anni dopo la morte del principe consorte Alberto di Sassonia Coburgo Gotha - aveva su Vittoria, allora quarantacinquenne, un ascendente particolare: era l’unico uomo sulla terra a potersi permettere di trattarla anche in maniera brusca e diretta, per esempio sgridandola se lavorava troppo e se mangiava in maniera smodata. La sovrana apprezzava la lealtà e la schiettezza del servitore, ascoltava divertita il suo forte accento scozzese e si compiaceva del fatto che fosse pure un bell’uomo, alto e muscoloso. Lei d’altronde non aveva mai fatto mistero di trovare grande appagamento nella bellezza maschile. Dopo la morte di Alberto, di cui era sempre stata innamorata fin dal giorno del loro primo incontro, trovò un certo conforto nelle attenzioni galanti di alcuni uomini del suo seguito, dal primo ministro Benjamin Disraeli (morto nel 1881, e che aveva chiesto di essere sepolto con una foto di Vittoria) ad Abdul Karim, servitore indiano che si rivelò ladro e approfittatore e finì per essere allontanato.

Fu certamente un legame molto chiacchierato a corte e un argomento di satira sulla stampa. Si diceva che fossero come marito e moglie, tanto che lei veniva appellata col nomignolo di Mrs. Brown, e quando le voci le arrivarono all’orecchio le liquidò come sciocchezze, mentre ai consiglieri che la pregavano di allontanare il servitore rispose che «alla regina non si comanda». Lo sconcerto di chi la circondava emerge chiaramente in diversi documenti arrivati fino a noi, pagine di diario e lettere di tanti tra i consiglieri della sovrana.

Basti citare lo sconforto di Lord Derby, ovvero Edward Geoffrey Smith Stanley, XIV conte di Derby, primo ministro dal 1866 al 1868. Nel suo diario descriveva la relazione tra la regina e John Brown: «Lunghe passeggiate solitarie in zone appartate del parco; presenza costante nella sua stanza; messaggi privati inviati da lui a persone di rango; attenzione a non essere osservati mentre lui conduceva il pony o guidava la sua piccola carrozza». Le principesse, aggiungeva Derby, si riferivano a Brown come «l’amante della mamma».

Nel suo libro, Fern Riddell ricorda il resoconto della confessione fatta in punto di morte dal cappellano reale di Vittoria (aveva detto di aver celebrato le nozze),​​ e spiega il comportamento tra i due, nonché l’ordine dato dalla sovrana ai figli di stringere la mano a Brown come un loro pari, col fatto che probabilmente avessero contratto un matrimonio «irregolare». All’epoca, spiega, «le usanze matrimoniali scozzesi erano notoriamente flessibili ed era diventato comune per le coppie sposarsi semplicemente scambiandosi i voti. Avevamo sempre considerato questa possibilità di matrimonio da un punto di vista inglese: doveva esserci un prete, dovevano esserci le pubblicazioni, doveva esserci un matrimonio in chiesa. Nessuno l’aveva mai considerato dal punto di vista della comunità di lui».

Che la sovrana sia stata o meno la sposa di John Brown, vero è che quando questi morì, nel marzo 1883, per Vittoria fu un colpo durissimo. Essendo lui più giovane di sette anni, aveva sempre pensato che lo avrebbe avuto accanto anche sul letto di morte. «Provo un dolore simile a quello della scomparsa del mio caro Alberto», confidò a un consigliere. Un dolore che l’ha accompagnata per altri diciotto anni, fino al giorno della morte.

Nel suo testamento aveva stabilito che avrebbe portato con sé alcuni oggetti del marito tanto amato, tra questi un calco della mano in alabastro e la veste da camera. Quando il 22 gennaio 1901 arrivò il momento, James Reid, il suo medico personale, eseguì alla lettera le disposizioni della sovrana riguardo tutto ciò che doveva essere composto con lei nella bara: le cose che potevano essere portate a conoscenza dei familiari e quelle che invece dovevano rimanere segrete. Così Vittoria fu sepolta col velo da sposa ormai ingiallito sul capo, il nastro azzurro dell’Ordine della Giarrettiera sul petto e un mazzolino di fiori profumati tra le mani. Era il corredo funebre visto e approvato da Bertie, il futuro Edoardo VII, secondogenito della regina che in quelle ore si preparava a succedere alla madre come re del Regno Unito e imperatore delle Indie. Non appena questi uscì dalla stanza, il dottor Reid sistemò sotto la mano sinistra della regina una ciocca di capelli e una fotografia di John Brown. Scostò il mazzolino di fiori per accertarsi di un’ultima cosa: la fede della madre di John Brown, la vera che lui le aveva donato in punto di morte, era al suo posto.

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