Oltre 55.000 diagnosi in un  anno, con un incremento dello 0,5% rispetto al dato precedente, che risaliva al 2020. Il tumore al seno è una delle patologie più diffuse nel nostro Paese, ma grazie a un’azione di prevenzione e diagnosi decisamente più capillare rispetto al passato è anche uno dei tumori con il maggiore tasso di sopravvivenza netta dopo 5 anni dalla diagnosi: il report 2022 condotto dal Ministero della Salute colloca questa percentuale all’88%. Un dato, quest’ultimo, che conferma l’efficacia delle campagne di informazione e prevenzione: dalla fine degli anni Novanta l’Italia ha cambiato passo da questo punto di vista e si osserva una continua tendenza alla diminuzione della mortalità per carcinoma mammario (-0,8% all’anno), il tutto in abbinamento a un netto progresso terapeutico.

Le tipologie

Il cancro della mammella è una malattia caratterizzata dalla formazione di cellule neoplastiche nel tessuto mammario.

La ghiandola mammaria è composta da 15-20 lobi, a loro volta suddivise in piccoli lobuli. Le tipologie di tumore al seno sono diverse e generalmente distinte tra forme non invasive e forme invasive. Le non invasive, note con la denominazione di “carcinoma in situ”, si sviluppano nei dotti mammari, dei sottili canali addetti al passaggio del latte, e non si espandono al di fuori dal seno. Questa forma difficilmente dà luogo a dei noduli palpabili al tatto e viene identificata nella maggior parte dei casi tramite una mammografia. Il cancro al seno invasivo ha invece la capacità di espandersi all’esterno e la forma più frequente è il carcinoma duttale infiltrante, che da solo rappresenta circa il 75% dei casi di cancro della mammella. La diffusione verso altri organi avviene generalmente tramite i linfonodi. Si tratta di un tumore che raramente provoca dolore ma che può essere notato tramite la presenza di un nodulo o di un’area ispessita nel seno: bisogna però ricordare che la maggior parte dei noduli (si stima il 90%) non rappresenta una forma tumorale.

I fattori di rischio

Secondo un report della Aiom, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica, il tumore della mammella rappresenta il 30,3% dei tumori femminili nel nostro Paese. Un dato elevatissimo dovuto però anche alla grande diffusione dello screening preventivo, decisamente più frequente rispetto ad altri tumori. I fattori di rischio sono diversi: una lunga vita riproduttiva (mestruazione in età precoce e menopausa in età tardiva), una prolungata assunzione della pillola anticoncezionale e l’obesità, oltre a una percentuale che riguarda aspetti genetici. Fino al 10% dei casi di tumore della mammella è associato a una mutazione genetica ereditaria presente sui geni BRCA1 e BRCA2, che predispongono la donna allo sviluppo del tumore al seno e del tumore all’ovaio. Questi geni di norma producono delle proteine in grado di riparare degli “errori” del dna: quando sono mutati, però, non riescono a svolgere il loro compito, gli errori si accumulano e finiscono per determinare l’insorgenza del tumore. Non tutte le donne portatrici di una mutazione di questo tipo svilupperanno un tumore della mammella, ma sono soggette a un rischio maggiore. Per questo motivo, le donne che hanno in famiglia casi di tumore alla mammella, specialmente in giovane età, devono prestare grande attenzione.

I segnali

A livello generale, vengono identificati cinque segnali che dovrebbero far scattare un allarme: la presenza di un nodulo in fase di autopalpazione; la retrazione del capezzolo o della pelle del seno; del rossore nella zona intorno al capezzolo; una tumefazione ascellare; la presenza di secrezioni ematiche del capezzolo. In questi casi è consigliato rivolgersi immediatamente a uno specialista, che procede con l’ecografia mammaria e con la mammografia: la scelta passa da diversi fattori come età, familiarità e densità della mammella. L’identificazione di un nodulo potrebbe, in alcuni casi, richiedere anche una biopsia diagnostica del nodulo sospetto, solitamente praticata con una procedura ambulatoriale che consente di procedere con un esame citologico o istologico per effettuare ulteriori verifiche molecolari e valutare, nel caso peggiore, l’aggressività e lo stadio del tumore.

***

Diagnosi e trattamenti per arginare il cancro

I test citologici e istologici servono a conoscere il livello di aggressività della patologia e individuare così il percorso terapeutico più idoneo per il singolo caso affrontato

Arrivare alla diagnosi di tumore al seno è possibile tramite i due principali esami di diagnostica per immagini: l’ecografia mammaria e la mammografia. Solo nel caso in cui la mammella sia molto densa o presenti delle lesioni ritenute difficili da classificare, si procede alla risonanza magnetica.

Gli esami

Una volta individuate le formazioni sospette, il medico specialista generalmente consiglia una biopsia, che può essere eseguita in un ambulatorio di senologia diagnostica. Il prelievo avviene mediante un ago inserito nel nodulo. Meno frequente è la procedura del lavaggio dei dotti, che consiste nell’introdurre un liquido nei dotti galattofori attraverso i forellini presenti sul capezzolo. Questo liquido, raccolto dopo il lavaggio, contiene delle cellule provenienti dalla parete dei dotti stessi che possono essere studiati al microscopio, andando alla ricerca di differenze indicative. Sui campioni prelevati si effettuano analisi diverse, che permettono di esaminare le caratteristiche delle cellule (è il caso dell’esame citologico) o del tessuto prelevato (esame istologico). Le indagini molecolari effettuate sul tessuto consentono di valutare alcune caratteristiche del tumore: i recettori ormonali e la velocità di crescita su tutti. Grazie al campione istologico è inoltre stabilito il grado della malattia: più è basso, meno la malattia è aggressiva.

I trattamenti

Una volta che lo specialista ha stabilito la presenza del tumore, può decidere di effettuare ulteriori indagini radiologiche per verificare la diffusione dello stesso in altre aree dell’organismo: radiografia del torace, ecografia, tomografia computerizzata, scintigrafia ossea o tomografia a emissione di positroni, nota con la sigla PET. L’altro passaggio fondamentale è la cosiddetta “stadiazione”, un processo che consente di assegnare uno stadio al tumore al fine di scegliere le terapie da somministrare alla paziente. Il sistema di stadiazione è lo stesso della maggior parte dei tumori solidi, il sistema TNM, che valuta l’estensione della malattia, il coinvolgimento dei linfonodi e la presenza delle metastasi. In linea generale, l’intervento chirurgico è la soluzione più utilizzata per rimuovere i tessuti malati. Si cerca sempre di ricorrere alla chirurgia conservativa, una tipologia di intervento che punta a salvare il seno rimuovendo solamente la parte in cui si trova la lesione. La tecnica consiste nell’asportazione del tessuto mammario che circoscrive il tumore, conservando la struttura mammaria. Nei casi più gravi, però, si deve asportare più di un singolo quadrante: si parla di mastectomia parziale o totale in base alla quantità di tessuto prelevato nell’intervento. La chirurgia consente anche di determinare l’eventuale diffusione della malattia ai linfonodi ascellari: asportando i linfonodi sentinella, i primi verso i quali si diffonde la malattia, i medici riescono a individuare l’eventuale presenza di cellule tumorali e definire se sia il caso di rimuovere i linfonodi ascellari. Dopo l’intervento chirurgico può essere previsto un ciclo di radioterapia adiuvante, con lo scopo di proteggere la restante ghiandola mammaria dal rischio di una possibile recidiva. Non sempre è necessaria la chemioterapia: la valutazione caso per caso spetta allo specialista.

***

Lo screening: il controllo biennale riduce la mortalità

L’aumento dei casi rilevati di tumore al seno è dovuto al maggior numero di controlli preventivi. In Italia lo screening è in grande crescita e questo è un bene: la diagnosi precoce aumenta in maniera esponenziale la possibilità di sconfiggere il tumore al seno. La prima regola da seguire per una donna è quella di non sottovalutare la presenza di un nodulo o le modificazioni dell’aspetto del seno. L’autopalpazione è fondamentale ma non può sostituirsi alla visita specialistica: è da considerare una forma di controllo preventivo in grado di tenere sott’occhio eventuali modificazioni della mammella. Si consiglia di effettuare a prescindere dall’autopalpazione una visita di controllo una volta all’anno.

La scelta dei test

La mammografia, un esame radiografico che si svolge mentre il seno è compresso tra due lastre, è un test molto rapido e che non presenta particolari controindicazioni: le linee guida fornite dal ministero della Salute indicano di eseguire una mammografia a cadenza biennale, dai 50 ai 69 anni di età. Tuttavia, in alcune regioni italiane si sta sperimentando l’efficacia dell’aver ampliato questa fascia tra i 45 e i 74 anni. Si tratta però di indicazioni generali, che variano in base allo storico clinico di ogni donna. Chi ha casi di tumore al seno in famiglia deve anticipare l’inizio di queste verifiche periodiche: secondo una stima condotta dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, partecipare allo screening biennale può ridurre del 35% il tasso di mortalità di questa malattia. Nelle donne più giovani, in cui il tessuto ghiandolare della mammella è più denso, si preferisce l’ecografia mammaria alla mammografia: si tratta infatti di un esame che in questi casi fornisce più informazioni rispetto alla tradizionale mammografia. Lo specialista, in base alla conformazione del seno, può indirizzare la paziente verso una delle due tipologie di esame.

© Riproduzione riservata