Qualche giorno fa è giunta alla attenzione della Commissione Affari Costituzionali della Camera la questione relativa alla cosiddetta Riforma Calderoli sulla Autonomia Regionale Differenziata. Manca poco alle competizioni di rilievo europeo, ed il Governo o, meglio, taluna delle differenti compagini partitiche che lo compongono, nella specie la Lega di Matteo Salvini, sembrerebbe impegnarsi a tutto tondo al fine di concretizzare, attuandoli, in tempi quanto più brevi, i punti salienti di cui al proprio programma elettorale.

Nulla quaestio, se solo non fosse che, ancora oggi, l’ampio dibattito politico e scientifico parrebbe (il condizionale si pone d’obbligo) non aver ancora sciolto i nodi inerenti talune questioni critiche che attraversano e intersecano l’attuazione empirica del cosiddetto regionalismo differenziato, riproponendo di fatto interrogativi (tutt’altro che trascurabili) di caratura costituzionale sui quali non sembra essersi raggiunto un punto di intesa che possa dirsi davvero comune e generalmente condiviso. E ancora nulla quaestio, se solo non fosse che, probabilmente, una riforma di siffatta consistenza andrebbe rimessa, in via cautelativa, al gradimento degli Italiani attraverso un apposito referendum dall’enunciato chiaro e direttamente percepibile nel contenuto dalla generalità dei consociati. Ossia, per essere più chiari, al gradimento di coloro sui quali, a differenti livelli, ed in diversa misura, andranno a riflettersi gli effetti.

Del resto, la volontà degli italiani dovrebbe rappresentare sempre il punto di approdo di ogni decisione e/o riforma proveniente dal Governo. Non si tratterebbe, dunque, di condividere o meno le ragioni della Riforma Calderoli in forza del credo politico di ciascuno. Si tratta piuttosto, e più semplicemente, di considerarne la opportunità, tanto su base normativa quanto su base sociale, proprio a cagione della costruenda differenziazione istituzionalizzata delle competenze delle regioni a statuto ordinario.

Se pure paia essere vero, come in effetti è vero, che la piena attuazione del principio di “uguaglianza” passi attraverso il rispetto delle differenze, tuttavia, il rispetto di quelle stesse differenze deve pur sempre garantire la attuazione piena della uguaglianza medesima di tutti i cittadini, garantendo il riequilibrio delle condizioni di base. Anche a tutto voler concedere e considerare, tuttavia, sembrerebbe che su iniziativa del Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, e sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata, secondo la formulazione datane dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione, si vogliano conferire alle Regioni le nuove competenze per il tramite di una legge. Ossia, attraverso una “fonte” che, da un punto di vista meramente gerarchico, si porrebbe su un piano analogo a quella da regolare e, pertanto, a ben considerare, dotata della medesima forza normativa della fonte regolatrice.

Dicendolo altrimenti, probabilmente una riforma di siffatta consistenza e rilevanza si sarebbe dovuta incardinare nel contesto di un disegno di legge costituzionale. Intanto, perché, come da voci autorevoli sottolineato, sarebbe stato innanzitutto opportuno e doveroso definire ex ante i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali i quali, ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m, della Costituzione, dovrebbero, come nei fatti devono, essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Quindi perché, il testo della Riforma Calderoli non sembrerebbe chiarire la posizione, rispetto al regionalismo differenziato, delle Regioni a Statuto Speciale, le quali parrebbero poter concludere, a loro volta, intese finalizzate alla acquisizione di nuove competenze nelle materie indicate dal richiamato articolo 116, terzo comma, della Costituzione benché quest’ultimo paia riferirsi, nel suo enunciato, alle sole Regioni a Statuto Ordinario. Infine, perché la complessità della materia che si vorrebbe fare oggetto di riforma avrebbe tutto sommato imposto una discussione parlamentare variamente articolata e finalizzata alla analisi compiuta ed esaustiva di ogni potenziale aspetto critico.

Intendiamoci su un punto ad ogni buon conto: interrogarsi innanzi a un percorso riformatore che si annuncia per essere particolarmente incisivo per il futuro prossimo della Repubblica nelle sue varie articolazioni territoriali, non vuole dire esprimersi in modo assolutamente contrario alle autonomie territoriali le quali, invero, potrebbero costituire senza dubbio una opportunità laddove l’intero Paese, inteso nelle sue differenti articolazioni regionali, si trovasse nelle condizioni sociali, economiche e fiscali per potervi dare attuazione in maniera egualitaria e paritaria al fine, appunto, di conservare la solidarietà e la coesione sociale, economica e territoriale già garantite dall’articolo 5 della Costituzione in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione medesima.

Insomma, il principio prudenziale dovrebbe suggerire un passo indietro rispetto alla esigenza riformatrice siccome, anche a tutto voler concedere sul piano ideale, la affermazione delle “autonomie” non pare possa realizzarsi laddove non vengano preliminarmente stanziati investimenti pubblici di consistenza tale da porsi come idonei a garantire la elisione di ogni e qualsivoglia diversità attualmente esistente nel contesto delle varie aree territoriali. Sarebbe interessante sul punto un intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, proprio in ragione della forza impattante della Riforma sul regionalismo differenziato.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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