E’ tempo di bilanci. E il più pesante, sorprendentemente, sembra essere quello che precede ed accompagna la scelta del prossimo Presidente della Repubblica, non solo per essere questa medesima scelta divenuta l’epicentro funzionale di accomodamento degli assetti partitici, o quanto meno, di quel che resta di ciascuno di essi, ma anche per essere, quella stessa medesima scelta, progressivamente divenuta una garanzia di sopravvivenza nel contesto di un “sistema” divenuto incapace di sottoporsi, nel contesto privilegiato dell’urna, al confronto democratico con il Popolo Sovrano.

L’intento non è quello di mettere in discussione a tutti costi l’ordine (in)costituito dell’ultimo biennio pandemico, e neppure quello, ad essere onesti, di predisporre un manifesto programmatico sul come si dovrebbe procedere. Si tratta piuttosto di prendere atto, con puntuale senso di pragmatismo, del progressivo affermarsi di una società controversa, quella del “no” sociale istituzionalizzato, che pare essere divenuto il paradigma significativo, calzante, e condizionante dell’azione politica. Mai prima d’ora, neppure ai tempi della (in)gloriosa (“per molti ma non per tutti”) Prima Repubblica, avevamo potuto constatare il crollo dei ruoli partitici e delle funzioni istituzionali, il loro distacco dal paese reale, e l’indeterminatezza delle loro capacità rappresentative sfociata di recente nella formazione di un Governo di Unità Nazionale a guida assoluta, ed “assolutista”, di Mario Draghi, nel suo ruolo di “alter ego” di Mario Monti.

Ebbene: quella stessa indeterminatezza è significativa del come, al di fuori da una qualificante presenza di governo, tanto la destra, quanto la sinistra, senza neppure passare per il centro, inesistente “de facto” benché si voglia tentare addirittura di resuscitare quel “belzebù” di Matteo Renzi, si muovano senza alcun progetto politico concreto e capacità di mobilitazione sociale. Il limitato consenso allo stato rispettivamente stimabile nei termini illusori della strettissima verosimiglianza sondaggistica, non riesce a lambire, ed aggiungo paradossalmente, le tematiche sociali ed economiche che avrebbero dovuto, e dovrebbero permeare l’azione di governo.

Che si tratti di “deficit di rappresentanza”, o più in generale, di una sorta di “deficit democratico” riflesso poco importa. Importa, invece, che in qualunque direzione si voglia volgere lo sguardo, non si riesca più a comprendere “chi” rappresenti “cosa”, si sia cioè perduto il cosiddetto “elettorato di riferimento” quale diretto e consapevole fruitore di una ben determinata proposta politica, comunque anch’essa, a monte, deficitaria.

Difetta, nelle diverse organizzazioni politiche, e nelle Istituzioni di riferimento, la capacità di individuare e comprendere le situazioni di diseguaglianza e di disagio, e quindi, di conseguenza, la capacità di intervenire per correggerle attraverso quei sacrosanti, ma oramai inesistenti, meccanismi democratici di risoluzione. Ed ecco allora che il “no vax” o il “no-pass” (comunque inaccettabile) di talune frange della popolazione civile, in contrapposizione al differente “no-vax, no pass” di Governo quale limite ad un atto di disobbedienza sociale, si traduce, per riflesso diretto, in un sonoro “no” (giustificabile) all’incapacità della classe dirigente accomodata sugli scranni del potere, di elaborare una proposta economica che sia capace di oltrepassare le indicazioni convenzionali per conformarsi con convinzione alla nascenda organizzazione sociale divenuta espressione dell’unico partito realmente “conformizzante” e “conformizzato”, ossia quello della astensione programmata e mai deficitaria.

Difficile, in sede puramente teoretica, dire se tutto questo preluda alla configurazione di un modello societario ispirato a forme crescenti di socialismo democratico, oppure, più semplicemente, all’arroccamento di un “mondo di mezzo”, quello ahimè della società civile, trovatosi privo di rappresentanza e, quindi, di capacità espressiva incidente per essere venuto meno il suo interlocutore privilegiato. Inutile negare che da diversi anni i cittadini si sentano sempre più esclusi dai meccanismi e dai processi decisionali per essere, questi ultimi, divenuti irrimediabilmente lacunosi e per nulla trasparenti, ed assolutamente incapaci, peraltro, di giustificare l’autonomismo penalizzante nella configurazione dei modelli di (sotto) sviluppo economico e fiscale che caratterizzano questa Italia rispetto ai partner europei più fortunati e scaltri. Forse è proprio vero che nel nostro Paese, alla politica, ed ai suoi insipidi rappresentanti (mi si perdoni l’espressione), conviene che i problemi esistano ed anzi si moltiplichino, perché in fondo, quei problemi, sono il presupposto distorto e distorsivo della loro minimale sopravvivenza (o quanto meno fa comodo crederlo), sebbene privata di qualsivoglia forma di credibilità, i quali problemi, per giunta, li inducono (i nostri politici si intenda) vergognosamente a non abdicare per non dover subire la condanna dell’oblio e della povertà. Il punto è che oramai il dado è tratto, malgrado tutto e malgrado tutti: la Gente è stanca, rassegnata, poco disposta alla tolleranza. Insomma, intendiamoci: chi se ne frega se Mario Draghi sarà ancora Presidente del Consiglio oppure assurgerà agli onori del Colle? Fermo restando che la sua esperienza di governo è già stata più che eccedente le naturali aspettative temporali e che sarebbe ora che tornasse alle sue naturali occupazioni. Chi se ne frega se il Governo cadrà subito dopo la scelta del successore di Sergio Matterella? Laddove non si fosse capito il Popolo, la gran parte del Popolo, che evidentemente non è un bancomat da cui attingere sempre e comunque, ha gravissima difficoltà a mettere insieme il pranzo e la cena, a sopportare il crescente peso fiscale, ad onorare le varie bollette in progressivo aumento, a sopravvivere alla mancanza di lavoro e/o allo sfruttamento dello stesso.

Questa è l’unica vera vergogna inaccettabile in un paese che ambisce ad essere considerato civile nel senso pieno del termine. Ma, a ben considerare, nella situazione data, come potrebbe essere altrimenti in un contesto ove la rappresentanza partitica si è progressivamente trasformata in un pallido organismo di burocrati non eletti chiamati a dirimere non meglio precisate circostanze di conflitto e ad assumere decisioni di rilievo per la vita delle comunità? La disaffezione nelle Istituzioni è oramai divenuto il sentimento dominante. Qualcuno saprà o vorrà porvi rimedio, oppure si dovrà arrivare al tragico momento di frattura?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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