Potrà, ad una prima e superficiale impressione, apparire come una riflessione estemporanea se rapportata alle necessità del momento contingente. Eppure, tale non è, poiché costituisce la base dogmatica di riferimento del contesto partitico presente e di quello, “in potenza”, futuro.

In particolare, lo ricorderete, è dei giorni scorsi la notizia per cui il Tribunale Partenopeo avrebbe disposto la sospensione, come nei fatti ha sospeso, della efficacia delle votazioni mediante le quali nell’agosto dello scorso anno era stato modificato lo Statuto del Movimento 5 Stelle e si era proceduto all’elezione di Giuseppe Conte alla Presidenza. Perché ricordare oggi quell’evento apparentemente poco rilevante? Perché, potreste chiedere, parlarne qui ed ora al di là del paradosso che lo sottende e lo qualifica nei termini del “nonsense” giuridico istituzionale?

Ebbene: la ragione è una e una soltanto e, a ben considerare, merita di essere discussa e condivisa. Attraverso quella decisione, infatti, che parrebbe aver solamente conclamato, e di conseguenza decretato, l’inesistenza di un Movimento/Partito confuso fin dall’ “impianto”, ed indefinito nei suoi “fini” per essere il contenitore acritico e per nulla selettivo di istanze variegate provenienti da una ipotetica quanto generica “base democratica”, si è voluto legittimare un “fraintendimento” di fondo nel contesto della già incerta “democrazia interna” ai Partiti, a tutti i Partiti indistintamente, e quindi non solamente di quella inerente il Partito dei Penta-Stellati.

Sempre che questa “democrazia interna” sia mai esistita, e/o esista nel contesto presente, dalla fine della Prima Repubblica ad oggi.

In questi termini, la riflessione è tutt’altro che scontata e, nel contempo, niente affatto irrilevante nei suoi effetti pratici perché, a ben considerare, si propone quale paradigma interpretativo e “speculativo” del panorama partitico futuro, tanto evanescente nella sua consistenza quanto destinato all’oblio istituzionale.

Specie nel momento presente pare assistersi (ma è solo una pallida impressione condizionata), per un verso, ad una progressiva esaltazione delle funzioni “istituzionali” dei Partiti per essere questa esaltazione “favorita” dalla “formazione” forzosa di un Governo di (dis) unità nazionale ma anche “consentita” dalla loro inconsistenza programmatica e strumentale e, per altro verso, ad una altrettanto progressiva, quanto costante, erosione delle loro funzioni di “rappresentanza e legittimazione”, quasi che il rapporto tra le descritte funzioni faccia fatica a sopravvivere alla sua inversa proporzionalità.

In altri termini, e forse più semplicemente: al sorprendente incremento del livello di “istituzionalizzazione” (e conseguente omogenizzazione) dei gruppi politici, parrebbe fare da pericoloso contro-altare la perdita dell’impianto regolamentare di “democrazia interna” di quei medesimi gruppi partitici, e quindi la (in) capacità degli stessi di riflettersi nel contesto sociale su un piano di alterità ed autonomia rispetto alla “autorità” la quale, invece, dovrebbe limitarsi a costituire la pura e semplice “sintesi” di un sistema politico vivacemente articolato.

Intendiamoci: siffatta trasformazione erosiva della naturale funzione dei partiti, ammesso e non concesso che qualcuno tra noi, se non quelli più “maturi” anagraficamente, riesca a ricordare quale sia, non pare essere stata né casuale, né totalmente inconsapevole, siccome, in qualche modo e in qualche misura, parrebbe affondare le sue radici nella tendenza a valorizzare modelli di “governance” plebiscitari oramai rassegnatisi a riporre la propria “fortuna” sulla minore e/o maggiore capacità della leadership di fungere da elemento catalizzatore del consenso popolare e tale da indurre alla configurazione sistematica del modello partitico alla stregua di una fredda ed anacronistica “election machine”.

Ma, potreste chiedere, quali sarebbero gli elementi di connessione tra le regole di democrazia interna dei partiti e i meccanismi di esaltazione delle leadership la cui “fortuna” è tanto evanescente quanto soggetta ai limiti temporali della contingenza naturalistica? Ebbene: per quanto possa sembrare impossibile, i ridetti elementi di connessione esistono, dal momento che proprio al processo di de-valorizzazione dei meccanismi di “membership”, è corrisposto il depauperamento delle forme regolamentari interne alle formazioni partitiche.

Intanto, perché la adesione ad un partito e alle condizioni regolamentari imposte, presupporrebbe, come nei fatti dovrebbe presupporre, la compartecipazione democratica della cosiddetta “base” alle decisioni rilevanti per la sua esistenza e la sua crescita. Quindi, perché quella “base”, diversamente da quanto parrebbe accadere oggi, non può semplicemente essere assunta quale strumento compiacente ed “impotente” di legittimazione reverenziale di una leadership non sempre ampiamente condivisa.

Infine, perché i “partiti”, nel loro essere “organizzazioni”, presuppongono l’esercizio condiviso e deliberato ad ampia maggioranza, di molteplici funzioni utili a formare la “sintesi” dell’azione di governo propriamente intesa. Tanto è vero che proprio la crisi delle leadership (quella ad esempio di Matteo Salvini, di Enrico Letta, dello stesso Giuseppe Conte che parrebbe non averla addirittura mai esercitata), ha determinato, condizionato ed aggravato il processo di “fluidificazione” delle diverse identità politiche le quali, se nel passato anche recente parevano essere vincolate alla forte affermazione delle proprie ideologie contrapposte, nella attualità contingente sembrerebbero aver lasciato ampio ed incolmabile spazio a “vuoti” organizzativi e creativi di immagine i quali, a loro volta, paiono aver influito sulla intervenuta incapacità, financo di “proclamazione”, e di elaborazione di principi e di valori.

Se ci dovessimo domandare “cosa” esattamente definisca l’identità di ogni singolo partito, io credo che non sapremo proprio come rispondere siccome “limiti” e “contro-limiti” si intrecciano, confondendosi, nei meccanismi definitori di (in) capacità performativa dei partiti.

Si è creata una frattura profonda, insanabile direi, tra il concetto di pura e semplice “identità” e quello, più complesso, di “identificazione” siccome, quest’ultimo, lungi dal porsi quale semplice “appartenenza” ad un gruppo, si connota invece per il suo momento “relazionale”, ossia di percezione soggettiva degli elementi fondativi del gruppo di riferimento, con ogni conseguenza sul piano della formazione delle “correnti” quali elementi di de-formazione e allontanamento ideologico dalla “base”.

I partiti, in conclusione, non esistono più perché si è persa la concezione intransigente della rappresentanza come collante tra le leadership, ossia coloro che siano stati chiamati ad interpretare il ruolo di direzione politica, e la propria base associativa.

In questo senso, e per chiudere il cerchio, le vicende che hanno interessato il Movimento 5 Stelle altro non sono se non il riflesso della degenerazione di tutti i gruppi partitici i quali, a ben considerare, hanno oramai smarrito la capacità di costruire rappresentanze durature e strettamente individuate.

Il partito è divenuto un concetto desueto, anacronistico, de-contestualizzato rispetto all’organizzazione sociale e alle sue regole performanti.

Oggi come oggi, i partiti sono “tamquam non esset”. Su quali basi, pertanto, si potrà procedere al rinnovamento della classe dirigente del Paese?

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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