Se si tradurrà in un vantaggio concreto e tangibile per le maggiori Isole del Mediterraneo, Sardegna e Sicilia, è questione ancora tutta da esplorare. Con buona pace di tutti quanti abbiano sentito l’esigenza di esprimere la propria incondizionata soddisfazione all’esito della approvazione, in Senato, ed in prima lettura, del disegno di legge che vorrebbe (re)introdurre nella Carta Costituzionale il riferimento alla “insularità” quale condizione di svantaggio idonea a legittimare, negli intenti dei suoi promotori, l’adozione di misure specifiche finalizzate alla rimozione degli ostacoli ed a garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Anche a tutto voler concedere all’iniziativa, l’operazione, nella sua ingenuità normativa, non sembra convincere per quel fastidioso retro-gusto “assistenzialistico” che pare connotarla quale presupposto indefettibile del riconoscimento. Sembra quasi si pretenda di voler far rientrare dalla finestra ciò che qualche anno fa, con l’intervenuta Riforma del Titolo V della Costituzione (comunque sciagurata sotto altri e differenti profili), pareva essere uscito dalla porta: ossia ogni riferimento all’assistenzialismo di Stato quale forma deforme e misura anchilosata del Governo del Territorio. Poniamoci un solo interrogativo, uno soltanto che valga per tutti: il superamento dello svantaggio infra-strutturale dell’essere Isola, del nostro essere Isola, è direttamente riconnesso alla maggiore o minore quantità di sussidi riconosciuti e/o goduti (se goduti) sebbene magari, e soprattutto, male gestiti, oppure alla (in)capacità (manifesta) di esercitare con consapevolezza un autogoverno (e la riflessione vale soprattutto per la Sardegna) esistente sulla carta ma mai tradottosi in esperienza legislativa ed ordinamentale?

Riportato in soldoni, e parlandoci chiaramente, a voler insistere nel ritenere, anche fra le righe, che la reintroduzione del riferimento alla insularità in Costituzione debba valere a giustificare, in termini quantitativi, un considerevole incremento dell’intervento pubblico, allora, all’evidenza, si sarebbe condannati ad aver vanificato completamente, mancandola, una iniziativa comprensibile ma comunque destinata al fallimento sostanziale per essere incardinata su un impianto ideologico che ancora una volta vorrebbe riconnettere, in senso ingannevolmente risolutivo, la misura dell’intervento pubblico alla qualità del servizio offerto e concretamente erogato ad un dato territorio. Da quando in qua le problematiche di un territorio disagiato per proprio peccato originale come la Sardegna, siccome figlio di una Politica troppo spesso codarda ed autoreferenziale che non ha saputo mai, o peggio voluto, declinare fattivamente la propria specialità, possono essere superate attraverso forme di incremento della spesa pubblica ed investimenti improduttivi (perché di questo si tratterebbe) direttamente riconducibili dal “Centro” (Roma) alla “Periferia” (Cagliari)? La risposta agli interrogativi sembra essere vergognosamente conseguente, ed è financo imbarazzante doverlo continuamente stigmatizzare.

Eppure, anche attraverso il perseguimento a-critico di questo rinnovato pseudo-obiettivo legislativo, si vuole insistere, o perlomeno così sembra, con la logica del tatticismo spicciolo, con il voler dispensare una narrazione edulcorata che vorrebbe celebrare la re-introduzione in Costituzione di un sostantivo (insularità) vuoto in termini di “significante” e di “significato” per la sua connaturale inidoneità finalistica sul piano pratico. La logica de-responsabilizzante che pare sottendere, suo malgrado, l’iniziativa appare, a sua volta, essere del resto confermata proprio dall’adesione incondizionata e trasversale al Progetto di tutto il panorama politico isolano. Più che di conquista, sinceramente, riferirei nei termini di un “autogol” consapevolmente e deliberatamente segnato per siglare, idealmente, una “cessione” di competenze che, con il trascorrere degli anni, ci ridurrà al rango di Regione a Statuto Ordinario per non essere stati capaci di fare buon uso della nostra decantata “autonomia speciale” la quale, guarda caso, è direttamente riconnessa ad uno Statuto Speciale approvato con Legge Costituzionale.

In buona sostanza, l’“insularità” quale connotazione sostanzialistica negativizzante di uno svantaggio avente origini, cause ed effetti “altre/i”, cozza con qualsivoglia ideale positivo di autogoverno del territorio conclamato troppo spesso a suon di trombe, ma nei fatti mai praticato per nostra sola incapacità. La contraddizione si sostanzia nella terminologia prima ancora che nella forma, e fin tanto che continueremo a manifestare la nostra incapacità nel focalizzare i problemi direttamente riconnessi alla conformazione dei luoghi, riconducendoli alla loro giusta fonte, non riusciremo mai a rinvenire formule davvero risolutive idonee a riconvertire il nostro destino futuro prossimo.

La Costituzione Italiana contempla già, al novellato articolo 119, un principio tutt’altro che assistenzialistico, quanto piuttosto perequativo, di coesione sociale e territoriale che si estende indistintamente a tutte le varie e disparate articolazioni regionali nel momento in cui si ritrovino ed essere esposte a momenti di difficoltà. Sicché, verosimilmente, la reintroduzione del riferimento all’insularità, significherebbe, come di fatto significa, fare un ritorno al passato, ad un passato che sembra volerci condannare ad una condizione di minorità legislativa e strutturale dalla quale abbiamo all’evidenza difficoltà e disagio a distaccarci. Un’ultima riflessione: nessuno ha ancora avuto la compiacenza di spiegare in che modo dovrà essere declinato sul piano contingente il riconoscimento del principio di insularità perché è chiaro, io credo, che al di là della pura e semplice attestazione normativa, occorra comprendere secondo quali modalità, quella medesima attestazione, andrà a connotare il governo dei territori interessati traducendosi in “esperienza” di sviluppo ed allineamento. Per il momento dunque: “tanto fragor per nulla”.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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