Sorprendente. All’indomani del voto, la terna Dio - Patria - Famiglia prevale su quella di Lavoro – Sanità – Scuola. Se fosse da attendersi questo risultato davvero dovremmo ammettere, un po' “cafoncellamente” (e non ce ne voglia Giorgia), che lo attendevamo ma non lo speravamo: ma non perché dall’altra parte ci fossero eccellenze meritevoli (magari fosse e fosse stato), tutt’altro, quanto piuttosto perché il trionfo di Giorgia Meloni costituisce né più né meno che l’esito scontato, e ancor meno convinto, di un voto poco partecipato ancora una volta rilasciato “di pancia” sull’onda del malcontento popolare, e destinato ad evaporare dopo i primi mesi di governo, se un Governo a guida Meloni si riuscirà ad articolare.

E, probabilmente, neppure la diretta interessata in fondo in fondo parrebbe desiderarlo considerate le criticità della realtà corrente che la costringeranno, suo malgrado, a sbiadire la sua identità politica, se non proprio a rinnegarla, per allinearsi alla linea politica delle maggiori Cancellerie Europee. Per intenderci: il Governo a trazione Meloni sarà ad ogni buon conto pure la sua “tomba politica” siccome una cosa è “giocare facile” all’opposizione, interpretare il Partito di Lotta, altra ben diversa è esercitare i poteri di governo senza perdere l’“anima”. E questo la nostra Giorgia Nazionale lo sa: è solo questione di tempo. Se fosse un politico avveduto, e lo scopriremo presto, rinuncerebbe generosamente al premierato per favorire la nascita di una sorta di penta-partito in perfetto stile democristiano che scaricasse le responsabilità decisionali ad un Organo Collegiale. Ma per farlo occorre non solo una cultura politica che Giorgia Meloni non pare aver ancora maturato, ma anche una consapevolezza partitica sollecita nel voler abbandonare i valori profondi una “Destra Sociale” che non può più interpretare i mutamenti in atto.

Una riflessione più profonda sugli esiti di questa tornata elettorale, tuttavia, appare oltremodo doverosa affrontarla, se non altro perché la stessa è valsa a consacrare il “battesimo politico”, quello vero, di Giuseppe Conte, privato del suo ruolo di Presidente del Consiglio dei ministri dal livoroso Matteo Renzi il quale, nel tentativo di rivalutare se stesso e il suo ruolo parlamentare, aveva avuto l’ardire di pilotare “baracca” e “burattini” a suo piacimento solo per mettere fuori gioco un competitor politico valido e rispettabile che nel corso, tanto del Conte Uno, quanto del Conte Due, era riuscito, a dispetto di tutti, ad accreditarsi tra i vari maggiori leader europei per aver interpretato la Sinistra Progressista in maniera sicuramente più convincente del centrosinistra di Enrico Letta il quale, a sua volta, nel suo atteggiamento ostinatamente ossequioso nei confronti di un Mario Draghi rappresentato quale infallibile Deus ex Machina, ha sicuramente annullato se stesso condannando la coalizione tutta al fallimento.

Se Enrico Letta avesse caldeggiato la persistenza dell’originario “campo largo”, stamattina staremmo raccontando un’altra storia (ma le vie della politica sono infinite e la paura del ritorno “fascista”, inesistente nella realtà, può ancora giocare la sua parte e riportare ad unità i pezzi di un puzzle dai contorni non ancora definiti).

Se ci pensiamo attentamente, questa, in fondo, è la storia di tutte le massime democrazie occidentali spaccate al loro interno ma vivide e vive all’esterno quanto meno in apparenza. Ed è proprio in ragione di quella apparenza che tra qualche giorno, paradossalmente, potremmo ritrovarci con un nominato governo di Destra-Destra che, tutto sommato, potrebbe non avere la forza sufficiente per abbandonare il comodo “frangi-vento” sorretto dalla pretesa credibilità internazionale di  Mario Draghi: lo sapremo il prossimo 13 ottobre, quando dovranno riunirsi Camera e Senato siccome finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati, per gli affari correnti, i poteri delle precedenti. Ammesso e non concesso che per allora le varie forze politiche siano riuscite a rinvenire un accordo di co-esistenza, soprattutto in ragione delle “emergenzialità” legate alla predisposizione della Legge di Bilancio e del Pnrr.

Tutto, insomma, potrebbe essere in strettissimo divenire, e nulla può essere dato per scontato. Intanto, perché costruire e articolare un governo di carattere politico non è semplice anche alla luce delle differenze sostanziali esistenti e insistenti all’interno di una coalizione che vede la débâcle di una Lega che dovrà necessariamente riarticolarsi al suo interno per poter essere efficiente all’esterno, e la progressiva moria di Forza Italia, inevitabilmente legata alle sorti di un presidente vogliosamente energico ma oramai incapace di re-interpretare il sogno italiano della rinascita per non avere lasciato spazio, all’interno della formazione partitica, ad una leadership strutturata capace di far sopravvivere il Partito medesimo al suo Presidente.

Quindi perché difficilmente la stessa Giorgia Meloni potrà farsi interprete di una rinnovata linea di politica estera e/o di politica economica, tradendo gli italiani proprio sugli aspetti di maggiore interesse sociale.

Infine perché se anche si riuscisse a dare vita a un Governo di destra radicale espressione di una figura femminile tutto sommato “sconosciuta” sul piano decisionale, tuttavia, su quello stesso governo graviterebbe con forza attrattiva dominante, lo spettro di Sergio Mattarella, che non mancherà di esercitare la propria capacità decisionale al momento della scelta delle personalità da inserire in rappresentanza dei ministeri maggiormente rappresentativi della linea politica nazionale.

Insomma, per farla breve, Giorgia Meloni potrebbe finire per essere solamente una figura di mera rappresentanza priva di reale potere incidente, espressione di un Premierato “senza infamia e senza lode” che dal 26 per cento circa totalizzato all’esito di queste urne potrebbe presto farla ripiombare alle sue originarie percentuali. Salita e discesa di una Donna di destra al governo in parole povere. È l’emergenza a farla da padrona e Giorgia Meloni non appare, quanto meno nell’immediato, capace di gestirla in maniera soddisfacente, ossia in maniera tale da soddisfare le aspettative del proprio elettorato. Tanto più allorquando l’astensionismo ha impedito di assaporare fino in fondo le preferenze del Popolo Italiano: diciamocelo chiaro, chi non è andato a votare lo ha fatto solamente per non dover esprimere alcun voto a tradimento del proprio credo politico deluso. Meglio un non-voto di un qualunque voto dato per pura e semplice protesta. La scelta, deliberata e profondamente meditata, di non recarsi alle urne non riguarda unicamente la persona che la compie ma ha inferenze politiche dirette e immediate nel momento in cui, trattandosi di determinazione diffusa, finisce per riverberarsi sul piano della legittimazione delle istituzioni democratiche e dell’impianto liberale dei partiti. Se anche Giorgia Meloni ha ottenuto la maggioranza tra i votanti, tuttavia, in considerazione del forte astensionismo, quella maggioranza non le garantisce una legittimazione reale. Ha quindi ben poco da gioire. E se “la zuppa non è pan bagnato” da qui a qualche mese torneremo alle urne. E “chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato”.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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