Il Consiglio regionale usa una norma abrogata: non bastano 7mila firme per una nuova legge elettorale
Sotto quota 10mila la raccolta per l’iniziativa popolare “Liberamus su votu” che voleva garantire maggiore rappresentanza in Aula. I promotori: «Ci fermano richiamando articoli non più in vigore per loro stessa ammissione: ricorreremo»Per restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Il Consiglio regionale rigetta la proposta di legge di iniziativa popolare per la riforma della legge elettorale della Sardegna. Motivo: le firme raccolte non sono sufficienti. Problema (da cui discende la polemica): a stabilire la soglia minima delle sottoscrizioni necessarie è una norma abrogata (quindi in teoria non più applicabile) che gli uffici del palazzo di via Roma considerano “ultrattiva”. Quindi, in vigore.
“Liberamus su votu”, “Liberiamo il voto”: questo il motto e il nome della proposta. L’obiettivo era garantire a tutte le forze politiche che partecipano alle elezioni una rappresentanza in Aula proporzionale ai voti presi, con la garanzia di governabilità derivante dal sistema della fiducia dell’assemblea. Ora non succede: le soglie di sbarramento hanno tagliato fuori dal Consiglio regionale grosse fette dell’elettorato (è successo con Michela Murgia, Mauro Pili e Renato Soru con le loro coalizioni, per stare ai casi più eclatanti) a favore del bipolarismo a trazione quasi presidenziale.
L’iniziativa era promossa dalla rete SarDegna, guidata da Lucia Chessa, candidata presidente alle ultime Regionali. Durante un’ampia mobilitazione sono state raccolte 8.139 firme, poi consegnate al Consiglio per la validazione e per l’attuazione delle procedure che avrebbero dovuto portare “Liberiamo il voto” all’attenzione degli onorevoli già eletti.
Ieri però è arrivata la doccia fredda, con la risposta del presidente Piero Comandini supportata dal parere del segretario generale Danilo Fadda.
Si legge che «quando una proposta di legge di iniziativa popolare è presentata al Consiglio, il presidente, prima di darne annuncio in Assemblea, dispone la verifica del computo delle firme degli elettori proponenti al fine di accertare la regolarità della proposta». E dai controlli sarebbe emersa «la validità di 7.152 firme. In particolare, su 877 moduli presentati è stata riscontrata l’irregolarità formale di 134 dei medesimi con conseguente invalidazione delle firme in essi contenute». Il numero di firme ritenute valide, recita il parere, «risulta al di sotto della soglia individuata dall’articolo 29 dello Statuto speciale ai fini dell’esercizio del diritto di iniziativa popolare, che richiede la presentazione di un disegno di legge da parte di almeno diecimila elettori».
Lucia Chessa sottolinea che «in Toscana (quasi 4 milioni di abitanti) e in Lombardia (oltre 10 milioni) sono richieste 5.000 firme. In Piemonte ne sono richieste 8.000 ma a fronte di più di 4 milioni di abitanti. Pretendere 10.000 firme in Sardegna con un milione e mezzo di residenti esprimerebbe nient’altro che la volontà di ostacolare uno strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione e dallo Statuto». Ma c’è di più, ed emerge proprio dal parere scritto dagli uffici del Consiglio. Perché l’articolo dello Statuto richiamato, scrivono da via Roma, «risulta formalmente abrogato dall’articolo 3 della legge costituzionale 2 del 2001 che, nel decostituzionalizzare la materia, ne ha consegnato la relativa disciplina alla legge statutaria. Sulla base della prassi seguita nel Consiglio regionale della Sardegna, tuttavia, tale disposizione è considerata ancora vigente». Viene interpretato come uno degli «istituti considerati fondamentali in quanto caratterizzanti il sistema costituzionale, quali principi irrinunciabili e immodificabili dello stesso». E finché non c’è una nuova norma specifica, la soglia delle 10 mila firme deve essere considerata efficace.
«Curiosa come argomentazione», sostiene oggi Chessa, «la norma non c’è ma la riesumiamo pur di respingere l’iniziativa popolare e riaffermare chi comanda. Variazioni sul tema che ripropongono sempre la stessa musica. Noi però non ci stiamo», annuncia, «pensiamo che la nostra, ora, sia una battaglia di legalità oltre che di democrazia e abbiamo già acquisito pareri di autorevoli giuristi secondo i quali le motivazioni del rigetto sono fortemente infondate. Le comunicheremo ufficialmente al presidente Comandini e sarà interessante sapere se un Tar, o un giudice ordinario, a cui ricorreremo, confermerà la nostra oppure la loro teoria».