“Non è tutto oro ciò che riluce”, sospirava un vecchio adagio troppo spesso dimenticato. Il Governo Draghi non manca di rivelare le “crepe” e le “incrinature” presenti al suo interno. Continua, infatti, l’incontro-scontro tra le differenti formazioni partitiche di Governo relativamente al tema “Giustizia” sul quale, a ben riflettere, e considerata la complessità delle questioni ideologiche coinvolte, come pure la perdurante ed insuperabile analiticità delle componenti giuridiche e meta-giuridiche di volta in volta emergenti, sembra doversi “giocare” la buona riuscita dell’intero impianto riformatore e, di conseguenza la tenuta dell’intero sistema fino all’anno 2023.

Il confronto tra partiti, solo in apparenza “allineati” nella esplicazione della volontà di apparire coerenti con le premesse motivazionali che li hanno condotti ed indotti alla prestazione del consenso all’adesione in qualche modo apparentemente “incondizionata” ad un “governo di unità nazionale”, sembra aver assunto, all’attualità, e salvo ulteriori inciampi di circostanza direttamente riconnessi all’esigenza di controllare e gestire anticipatamente le dinamiche che condurranno al prossimo impegno elettivo del nuovo Presidente della Repubblica, una duplice connotazione consistente, per un verso, e dal punto di vista squisitamente “interno” alle singole formazioni partitiche, nel dover stabilire significativamente “a priori” l’angolo visuale prospettico in forza del quale rapportarsi all’iniziativa legislativa promossa dallo stesso Guardasigilli incaricato Marta Cartabia e, per l’altro verso, nel dover comprendere, senza indugio, quale posizione assumere nei confronti della recente iniziativa referendaria congiunta portata avanti da Radicali e Lega su questioni ad onor del vero estemporanee e di chiaro sapore propagandistico rispetto alle peculiarità dell’impegno riformatore richiestoci dall’Europa e da portare a compimento in termini ristretti e sequenziati.

In buona sostanza, e detto altrimenti, per intenderci: se l’intento del Ministro della Giustizia (utilmente perseguito o meno è circostanza tutta ancora da discutere considerato il contenuto dell’apparato predisponendo) è incontestabilmente quello di articolare, ispirandolo a novità e celerità, un inedito quanto originalissimo “impianto normativo procedimentale” concernente le “modalità” di distribuzione del “servizio giustizia” in se e per se considerato in stretta attinenza all’esigenza di soddisfare le aspettative alimentate da Bruxelles, quello referendario, di “intento” si intenda, sembrerebbe, piuttosto orientato a ridisegnare i confini ed i limiti del più volte denunciato “ultra-potere” della Magistratura, o quanto meno, e più correttamente, di una certa falange politicizzata della stessa, siccome rivelatasi, con il trascorrere degli anni, come “legibus soluta” a tutto discapito della limpida gestione di un “potere”, quello giudiziario, costituzionalmente garantito ed involgente, direttamente, la quotidianità degli utenti finali del “servizio”, ma anche, indirettamente, il destino dei maggiori esponenti della politica nazionale al fine di condizionarne l’operato. Nulla quaestio sul punto, perlomeno in linea teorica: si tratta, all’evidenza, dell’esigenza dei singoli partiti, oramai indefiniti nella loro consistenza, di riconoscersi nell’ambito di dinamiche funzionali all’esigenza di rimarcare profili politici identitari facilmente riconoscibili dalla propria base elettorale sebbene non direttamente riconducili al perseguimento degli obiettivi “aliunde” preposti.

La contrapposizione finalistica in tal modo emergente, tuttavia, e a questo punto, benché molti paiano non volersene ravvedere, appare verosimilmente rappresentativa di una “frattura” tutta interna al sistema, destinata a porsi quale punto di caduta e di conseguente frantumazione di un “accordo tacito di stabilizzazione” nel momento in cui, incontrando buon esisto la “iniziativa riformatrice Cartabia” alle cadenze temporali pattuite, la distinta iniziativa referendaria tanto cara al Segretario Padano si svuotasse di ogni rilievo pratico siccome inutile rispetto alla sua potenziale ricezione sul piano pratico.

Detto diversamente, e per rendere maggiormente fruibile il concetto: la duplice e distinta iniziativa riformatrice, istituzionale per verso (quella Cartabia) e politica per l’altro (quella referendaria), lungi dal porsi quale attività concorrente confluente nel contesto di una unica “foce”, appare piuttosto nei termini della sua insuperabile alternatività inevitabilmente subordinata siccome declinata su un meccanismo “ad excludendum” per cui la buona riuscita dell’una finisce con il travolgere il buon esito ed il potenziale successo dell’altra.

Se considerato sulla scorta di siffatte premesse contrappositorie, pertanto, dubito che il delicato equilibrio instabile di governo possa ancora reggere a lungo. Così come permango dubbiosa sulla circostanza che le singole formazioni politiche di riferimento possano reggere a lungo prima di implodere, siccome travolte sistematicamente e costantemente dalle criticità interne alla propria traballante struttura organizzativa, palesata, nell’ambito del circuito di centrodestra, da una esigenza federativa significativa della debolezza intrinseca dei due partiti di riferimento, Lega e Forza Italia, rispetto alla forza crescente del partito di Giorgia Meloni saldamente ancorato alle proprie origini, e nell’ambito del circuito di centrosinistra, dall’incompiutezza ideologica del Partito Democratico che continua a sopravvivere a stento all’ombra di ciò che è stato e che non riesce più ad essere. L’atto stesso del rinunciare alla tentazione perversa, quanto inutile, di ricercare e di rincorrere “forme” e “dialettiche” ispirate a dinamiche protagonistiche incerte solo per maturare, recuperandolo, qualche indice di consenso perduto, è esercizio stilistico e comportamentale di assai complessa pratica quotidiana se rapportato alla condotta di formazioni partitiche (Lega e Movimento 5 Stelle in particolare) evidentemente portate ad estremizzare e svilire ogni singola “questione” astraendola dal piano squisitamente pratico il quale, tendenzialmente, sarebbe, come di fatto è, nel caso specifico, quello connaturale alla corretta fruizione del “servizio” giustizia. Sarebbe opportuno, allora, ricondurre a consapevolezza taluni aspetti indiscutibilmente dirimenti siccome potenzialmente idonei a compromettere la buona riuscita dell’impianto riformatore. Intanto quello per cui il confronto ideologico fondato sul presupposto del preconcetto non può più costituire la chiave di lettura e di interpretazione di una iniziativa riformatrice direttamente involgente il principio costituzionalmente garantito della “ragionevole durata del processo”, rimasto sostanzialmente inattuato dal lontano anno 2001 fino ad oggi. Quindi, quello per cui il punto di inciampo appare a tutt’oggi verosimilmente stigmatizzato su quelle che dovrebbero essere le linee direttrici della più ampia riforma del processo penale complessivamente inteso, e dell’istituto della prescrizione in particolare, gravemente compromesso, quest’ultimo, sul piano finalistico, dalla sciagurata riforma Bonafede. Inoltre, quello per cui l’obiettivo primario da perseguire dovrebbe essere, come di fatto deve essere, quello di rendere i processi civili e penali maggiormente efficienti senza per ciò stesso compromettere il delicato impianto delle cosiddette irrinunciabili “garanzie”. Infine, quello per cui il “pregiudizio di colpevolezza sociale”, per voler impiegare le parole della stessa Marta Cartabia, non possa persistere e/o radicarsi nel prossimo futuro come lo strumento punitivo non scritto utile a soddisfare, sublimandola, una risposta punitiva che lo Stato non riesca a garantire seguendo i percorsi ordinari. Allo stato, tuttavia, la gravità della situazione non pare essere stata colta da tutte le articolate componenti del “Governo Arcobaleno”, le quali continuano imperterrite a condizionarne l’attività attraverso “veti” non sempre evidenti per essere artatamente camuffati da iniziative, quale quella referendaria di matrice padano-radicale, che hanno il solo ed unico obiettivo di perseguire “altrimenti” finalità di stampo opportunistico che appaiono “altre” rispetto a quelle potenzialmente utili alla collettività.

Le logiche corporativistiche, con buona pace dei partiti di governo quotidianamente impegnati in schermaglie di generica sostanza e di dubbia condivisibilità, non possono più trovare ingresso nel sistema: responsabilità e coerenza sono l’imperativo categorico da rispettare se si vuole contribuire a rilanciare l’immagine dell’Italia nel Mondo, nonché a ricostituire il rapporto di fiducia con il Popolo.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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