“Galeotto fu” Matteo Renzi ed il suo risicato, ma evidentemente decisivo, partito di circostanza. Con 149 voti favorevoli, 141 contrari, ed una sola astensione, il Senato, sulla nota vicenda Open Arms, ha infatti rilasciato la propria autorizzazione a procedere a carico di Matteo Salvini, indagato per plurimo sequestro di persona aggravato e abuso di atti d’ufficio per aver impedito lo sbarco dei migranti bloccati al largo di Lampedusa nell’agosto dello scorso anno.

“Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità”, ha affermato stizzato il leader leghista, aggiungendo, peraltro, non solo di essere “orgoglioso di aver difeso l’Italia” (da chi o da cosa non si è ancora capito), ma anche di non essere, comunque, l’unico responsabile siccome Giuseppe Conte si sarebbe contraddistinto, nella circostanza specifica, per essere stato un “complice” consapevole ed accondiscendente.

Immediato e tempestivo l’appoggio di Silvio Berlusconi, il quale, apparentemente incurante del progressivo sgretolamento del suo storico partito, ed immedesimandosi paternamente “nei dolori del giovane” figliol prodigo Matteo, che da qualche tempo sembra proprio non azzeccarne più una, non si è lasciato sfuggire l’occasione per riaffermare il solito consolidato mantra, ossia che, “ancora una volta, l’uso politico della giustizia (sarebbe) l’arma con la quale la sinistra (pretenderebbe di) liberarsi degli avversari”.

Pietro Grasso, invece, dal canto suo, e con piglio deciso, non ha mancato di puntualizzare che, diversamente da quanto ha mostrato di ritenere Matteo Salvini, e con buona sua pace, “non ci fu responsabilità collegiale del governo” siccome “dal carteggio di quei giorni” emergerebbe “la contrarietà del premier alle decisioni prese”.

Fin qui, dunque, nulla quaestio: ciascuno può ben ritenersi libero di esprimere o meno il proprio disappunto sui fatti rappresentati, e/o di far valere le proprie legittime ragioni laddove realmente queste lo siano. Ma, anche a voler procedere al di là delle ragioni e dei torti, e conservando sempre e comunque un atteggiamento doverosamente garantista in ottemperanza al disposto di cui all’articolo 27 della Costituzione, quale è il significato recondito, sempre che uno ne esista, di questa contestatissima autorizzazione a procedere? Sussiste realmente un intento persecutorio nei confronti del leader padano da parte dei suoi ex compagni di governo? Ci troviamo per davvero di fronte ad un processo di strumentalizzazione di uno dei tanti “barconi della speranza” quale fatto politico rilevante, oppure, al contrario, siamo noi cittadini italiani ad essere vittime inconsapevoli di una odiosa strumentalizzazione alla rovescia frutto delle mistificazioni derivanti da una narrazione squisitamente ed artatamente ideologico-propagandistica che vorrebbe far passare per legittimo un comportamento “contra legem” siccome perpetrato in totale dispregio della normativa internazionale prevalente in materia?

Matteo Salvini ha agito, oppure non ha agito, per la tutela di un “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” e/o per perseguire “un interesse pubblico preminente” nell’esercizio di una specifica funzione di governo? Ed ancora, e comunque, la “preminenza dell’interesse dello Stato” o dell’“interesse pubblico” latamente inteso, anche laddove effettivamente sussistente, può essere fatta valere anche quando siano pregiudicati interessi di rilievo costituzionale superiore come la tutela della vita o la salvaguardia dell’incolumità di ogni essere umano?

Ebbene, la risposta a siffatti interrogativi assume connotati assai più determinanti di quanto si potrebbe essere indotti a ritenere, giacchè racchiude in se stessa l’essenza medesima della vacuità del proselitismo neo populista salviniano e le ragioni della sua flebile tenuta, nel lungo termine, sul piano politico e sociale. Intanto, perché diversamente da quanto ritenuto dal senatore padano, sussistono valori ed interessi la cui lesione, in alcun modo, può essere giustificata da un sia pur sussistente “interesse pubblico preminente” stante la piena ed indiscussa vigenza del principio del rispetto dei limiti derivanti dall’esigenza di non violare i diritti umani fondamentali.

Quindi, perché, checchè se ne voglia dire, e a prescindere da ogni valutazione sulla potenziale colpevolezza dell’ex Ministro dell’Interno, il Senato, nella specifica circostanza, non era chiamato a stimare la sussistenza o meno di elementi utili a fondare la condanna del Collega, ex Ministro dell’Interno, coinvolto nella vicenda, essendo evidentemente, quest’ultima, attività riservata al Tribunale, quanto piuttosto a valutare, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 96 della Costituzione, nonché della Legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, se fossero riscontrabili i cosiddetti “gravi motivi” utili a respingere la richiesta di autorizzazione a procedere.

Inoltre, perché, di conseguenza, e con buona pace del Senatore Verde, il voto del Senato, lungi dal potersi leggere in chiave tipicamente politico-ideologica di contrapposizione punitiva, va più correttamente interpretato in chiave esclusivamente giuridico-istituzionale siccome non comportante una valutazione sul merito della articolata, e per molti versi dolorosa, vicenda, ma solamente, diciamo così, una pura e semplice valutazione sull’opportunità del procedere.

Infine, perché, ad onor del vero, il reale pericolo da scongiurare è unicamente quello di acconsentire asetticamente ad un ingiustificato accreditamento di un utilizzo deviante ed anomalo dell’istituto dell’autorizzazione a procedere non solo da parte dei quei ministri che pretendano di nascondersi dietro la sussistenza di un preteso “interesse pubblico preminente” al solo fine di evitare il giudizio penale, e/o di conservare una sorta di impunità “garantita” all’evidenza ingiustificata alla luce della normativa vigente ed altrimenti ingiustificabile, ma anche quello di scongiurare il ricorso all’istituto medesimo in funzione meramente punitiva e squalificante del mal capitato avversario di turno.

In buona sostanza, e tentando di ricondurre a ragionevolezza l’intera vicenda, non sarà forse superfluo riflettere sulla circostanza per cui il principio di separazione dei poteri non può in alcun modo tradursi nell’ irragionevole convincimento per cui i membri di un qualsivoglia governo sono per ciò stesso immuni dalla giurisdizione penale ogni volta che si trovino ad esercitare le proprie funzioni, le quali – ed è davvero ozioso doverlo sottolineare – dovrebbero, come di fatto devono, sempre svolgersi entro gli strettissimi limiti della legalità.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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