Destra–Sinistra, Sinistra-Destra, eppure sembra si sia sempre punto e a capo. Ma se l’oggetto del dibattito attuale è l’introduzione del cosiddetto “Salario Minimo”, e quindi l’introduzione di uno strumento di garanzia che sembrerebbe porsi a vantaggio di lavoratori e lavoratrici, perché mai la classe politica, e/o comunque certa parte della stessa, nello specifico la maggioranza di governo, sia pure portando a giustificazione la necessità di continuare a procedere attraverso contrattazione collettiva e la riduzione della pressione fiscale delle imprese, parrebbe ritenere di doverne fare argomento spinoso di difficile introduzione e applicazione rinviandone semmai a settembre non già la sua concretizzazione quanto piuttosto la mera discussione?

La questione del lavoro, al centro del confronto tra la prima donna presidente del Consiglio e la prima donna segreteria del più importante partito di opposizione, quali contrasti sarebbe idonea a generare nel momento in cui il terreno del contendere concerna unicamente l’introduzione di una forma di tutela della parte più debole del sinallagma contrattuale in un momento tra i più critici che la storia del Paese ricordi? Quale sarebbe il senso ed il significato di una contrapposizione di tale consistenza? Perché discutere su una misura di dignità allorquando ogni migliore espressione di garanzia parrebbe rinvenire la sua ragione di essere proprio nell’attuazione di ogni minima forma di tutela delle classi più umili e disagiate? Tanto più allorquando la doverosa, quanto necessaria, correlazione tra diritti sociali e diritti civili parrebbe imporre con criterio di priorità l’attuazione dei dettami della direttiva 2022/2041/UE del 19 ottobre 2022, relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione Europea, da trasporre nel panorama legislativo nazionale entro, salvo errore, il 15 novembre 2024. E ancor di più allorquando parrebbero non esservi impedimenti dirimenti ed insormontabili all’ottemperanza.

Intanto, perché siffatta direttiva europea, come sottolineato da più parti, lungi dall’imporre agli Stati Membri il salario minimo legale, parrebbe piuttosto contenere una esortazione a porre in essere una riflessione intellettualmente onesta sui limiti stringenti e sulle potenzialità della sola contrattazione collettiva a regolare il settore gius-laburistico.

Quindi, perché, in linea generale, la graduale mortificazione del livello di garanzia dei compensi salariali, pur nella compresenza di ogni forma di contrattazione collettiva, parrebbe averne evidenziato le falle necessitando, di conseguenza, l’affiancamento alla medesima di forme alternative di tutela quale quella dell’istituto del salario minimo legale.

Infine, perché il terreno dello scontro politico, proprio in un contesto sociale di difficile gestione a cagione della inflazione e dei rincari, non sembra potersi focalizzare in termini dicotomici proprio su questioni afferenti la tutela di meccanismi di stabilità sociale.

Intendiamoci: il solo fatto che quello per il salario minimo si attesti tra i temi più caldi del dibattito pubblico nel settore delle politiche sociali e del lavoro non sembrerebbe costituire, seppure nei termini dell’acceso confronto di contrasto, un elemento di nocumento siccome, ad ogni buon conto, difficilmente la Direttiva Europea sui salari minimi adeguati, risalente agli ultimi mesi dell’anno 2020, potrà restare inattuata.

E la ragione sembra porsi nei termini della più specchiata semplicità se solo si passi a considerare il puro e semplice profilo definitorio: il salario minimo costituisce l’ammontare di retribuzione minima che, per legge, un lavoratore dovrebbe ricevere per la prestazione resa in un determinato arco temporale e che, in alcun modo, può andare soggetto a riduzione in forza di accordi collettivi o contrattazione privata.  Dicendolo altrimenti e più chiaramente: non sembrerebbero esservi, allo stato attuale della normativa vigente, argomenti tali da far ritenere che l’introduzione del salario minimo possa in qualche maniera cagionare l’indebolimento delle parti sindacali e della contrattazione collettiva, la quale ultima, semmai, potrebbe uscirne rafforzata. E dicendolo ancora più chiaramente: perché mai rinviare il confronto con la donna leader della opposizione che vorrebbe semplicemente portare, in via prioritaria, alla attenzione della donna leader della maggioranza la necessità di combattere il precariato e il lavoro povero?

Non potrebbe diventare, siffatta necessità, terreno condiviso di intervento attraverso la predisposizione di misure stringenti in tal senso che possano fungere da conforto per la parte debole del rapporto contrattuale? Perché continuare ad esasperare il senso della contrapposizione politica portando avanti le ragioni di una frattura fra i due assi che, all’evidenza, nessun risultato concreto sembrerebbe essere idonea a produrre? Non sarebbe più semplice coordinare, per farle convivere, le due differenti proposte di modo tale da garantire il supremo e più stringente interesse della classe debole? 

L’unico imperativo categorico, superiore al mero interesse politico di circostanza, sembrerebbe essere, come di fatto è, la necessità di combattere il precariato e il lavoro povero. E se così è, come pure pare essere, perché non si può procedere fin dall’immediatezza, sulla via del coordinamento delle proposte in campo? Quale sarebbe mai l’impedimento insormontabile che ostacolerebbe la contemporanea introduzione di una legge utile a stabilire il valore universalistico dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative e ad introdurre un salario minimo contrattuale nei settori critici nel pieno ed integrale rispetto dei parametri della direttiva Europea? La soluzione sembra porsi davvero nel proverbiale mezzo. E l’errore più grande sembrerebbe semmai essere proprio quello che pretenda di porre in netta contrapposizione le ragioni della contrattazione collettiva con quelle legate alla necessità di stabilire un parametro soglia al di sotto del quale nessuna retribuzione può considerarsi tale. Tanto più allorquando, al di là di ogni propaganda, la direttiva europea in argomento, lungi dal voler imporre alcunché, sostiene proprio la circostanza per cui l’ammontare del salario minimo non può in alcun modo essere stabilito a priori dall’alto, ma deve essere discusso unitamente alle parti sociali tutte.

Manca allora, e forse, la volontà politica? Da qualche parte bisognerà pur sempre cominciare, e probabilmente un forte segnale di intelligenza politica ed esempio di buon governo potrebbe essere proprio quello di riuscire a rinvenire il punto di congiunzione con le forze di opposizione per la realizzazione del bene comune concretabile certamente nel raggiungimento di un “salario ricco”, per usare l’espressione del vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, ma solo dopo aver garantito quello “minimo”. Se manca la base non si può raggiungere l’apice. Se non ora quando?

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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