Qualche giorno fa sul nostro quotidiano si è detto dell’identificazione e dell’arresto degli autori del duplice tentato omicidio avvenuto nella notte del 17 novembre dell’anno appena trascorso a Cagliari. Vittime due migranti, entrambi venticinquenni, rispettivamente algerino l’uno e marocchino l’altro.

La notizia, ad onor del vero, di per se stessa considerata, ha tutto il sapore, purtroppo, della rappresentazione, in chiave neo-moderna, di una quotidianità, che nelle sue varie estrinsecazioni violente quasi non riesce più neppure a disgustarci a dovere pure a voler prescindere da ogni considerazione sul colore della pelle di taluni dei protagonisti della vicenda, oltre che dalle ragioni e dai torti delle parti tutte coinvolte. Tuttavia, quella stessa notizia, considerata proprio la nazionalità delle vittime, non può che indurre riflessioni importanti e intense sul futuro dell’accoglienza in un Paese come l’Italia il quale, nonostante i numerosissimi e variopinti governi succedutisi nel corso degli anni, non è mai riuscito a garantire a se stesso innanzitutto, e alle Istituzioni Europee poi, un ordinamento organico e compiuto in materia di “immigrazione”. La quale, a sua volta, poggia le sue fondamenta, allo stato attuale, su una Legge assai risalente negli anni, e come tale inidonea a rispondere con efficienza alle trasformazioni nel frattempo intervenute non solo all’interno della società civile potenzialmente ospitante, ma anche, e soprattutto, all’interno delle comunità ospiti.

In buona sostanza, e dicendolo altrimenti, nessuno dei governi succedutisi ha mai saputo trovare, o forse più probabilmente voluto trovare, il paradigma solutorio più consono, il modello di declinazione e coniugazione tra le due contrapposte realtà coinvolte nella gestione del fenomeno, ossia quella autoctona, portatrice di valori e tradizioni in molti casi fortemente ridimensionati, sotto differenti angolazioni di osservazione, dalla globalizzazione imperante, e quella straniera portatrice, al contrario, di un substrato culturale fortemente radicato nell’ideologia siccome rimasto immune, per vizio d’origine, nel bene e nel male, dai condizionamenti del “mondo” esterno e del suo articolato percorso di “allargamento” orizzontale e verticale.

E con ogni probabilità, alla base dell’inconciliabilità apparente tra questi due mondi, ossia tra quello dei cosiddetti “aventi diritti”, siccome più fortunati per nascita, e quello dei cosiddetti “reietti” siccome provenienti da realtà critiche e fortemente disagiate, rinveniamo proprio la carenza di canali di comunicazione responsabile utili alla creazione non solo di modelli comportamentali nuovi direttamente finalizzati all’apertura verso il “diverso” e verso il “bisognoso”, ma anche di archetipi di civiltà integrate e, in quanto tali, profondamente eterogenee e innovative. Mi sono domandata più e più volte il perché di questo vuoto contenutistico senza mai riuscire a pervenire a una soluzione che potesse definirmi davvero soddisfatta. Probabilmente una ragione precisa neppure esiste, ma soggiace, invece e piuttosto, di volta in volta, alla percezione condizionata e condizionante del fenomeno migratorio da parte della comunità dei cosiddetti “aventi diritti”, la cui sensibilità appare peraltro di volta in volta orientata dalla propaganda politica del momento e/o dalla situazione economica personale e collettiva sempre meno rosea. L’accoglienza può ancora oggi essere considerata un diritto ineludibile, come io credo, oppure dobbiamo rassegnarci ad assecondare le spinte ideologiche unidirezionali di quanti continuano a perseverare nel volerla ritenere una sorta di castigo inflitto ingiustamente agli abitanti dei cosiddetti Paesi di primo approdo, tra cui, all’evidenza, pure la nostra Italia? La domanda, evidentemente e volutamente retorica per contenere al suo interno la doverosa risposta, dovrebbe imporre ad ogni interlocutore, come di fatto impone, una riflessione meditata e consapevole sul valore umano e culturale del principio di accoglienza nel contesto di un mondo definitivamente globalizzato, il quale, di certo, non appare più incline ad ammettere confini e/o confinamenti di sorta. Sicché, proprio quello stesso principio di accoglienza, nelle sue molteplici articolazioni anche assistenzialistiche, non può che continuare ad essere considerato come diritto fondamentale della persona, come riflesso finale dell’esplicazione del diritto alla mobilità di ogni essere umano in quanto tale.

Quello delle migrazioni, inutile negarlo, è sempre stato un fenomeno assai complesso la cui gestione ha sempre imposto conoscenze specialistiche non altrimenti sostituibili. E non vi è dubbio che le criticità che si presentano di volta in volta all’attenzione della Commissione e del Parlamento Europeo, chiamati con insistenza a intervenire in maniera risoluta per dettare Programmi di Indirizzo, siano l’estrinsecazione dei differenti approcci nazionali, condizionati, a loro volta, dalla discriminatoria esposizione ai flussi di arrivo e dai diversi “lacci normativi” esistenti sul piano politico e sociale di riferimento. Tuttavia, io credo, questa condizione di impasse potrebbe ben essere superata laddove finalmente la Politica tutta, sul piano nazionale, si sedesse attorno a un tavolo per ridisegnare con coerenza un Programma articolato di “Accoglienza” ordinata e responsabile utile a consentire la gestione razionale degli sbarchi nonché la disciplina del soggiorno orientata a favorire la convivenza e la conservazione dell’ordine sociale costituito attraverso precise scelte integrative e/o inclusive che finalmente consentano un reale allargamento della nostra base sociale di riferimento. Tanto più allorquando si voglia considerare che l’elaborazione di una “Politica Migratoria” lungimirante, imperniata sui modelli della solidarietà e della condivisione, costituisce la vera sfida dell’umanità e l’obiettivo finale del lungo percorso comune di cosiddetta “mondializzazione” direttamente finalizzato alla concretizzazione e stigmatizzazione del principio di necessaria coesione sociale latamente intesa. In questo senso, tanto le politiche aggressive del centro-destra, quanto quelle titubanti e tiepide del centro-sinistra hanno fallito miseramente per il timore irrazionale dei rispettivi leader di perdere la percentuale di consenso acquisito nel contesto di una comunità che ha incoronato il “like” a “Deus ex machina” del successo elettorale a tutto discapito della serietà degli interventi nei vari ambiti. E’ tempo di cambiamento, e a quel cambiamento non possiamo continuare a sottrarci, soprattutto ora che la pandemia ci ha reso “dipendenti” gli uni dagli altri. Il benessere degli uni è fortemente condizionato dal benessere degli altri: non dimentichiamolo mai.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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