P roprio in questi giorni è prevista la discussione della proposta di legge costituzionale per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, sostenuta dall'Unione delle Camere penali, ed è l'occasione buona per discutere sul tema.

Il caso Palamara, ex pm a Roma e oggi sotto processo per corruzione, dovrebbe insegnare, almeno, a distinguere tra pm e giudice. E invece si continua a confonderli, anche negli organi di informazione, perché oggi sono per legge due colleghi che superano lo stesso concorso, hanno gli stessi avanzamenti di carriera, lo stesso Csm gestisce la loro vita professionale, dall'assunzione alle promozioni, dalle sanzioni al pensionamento, per giunta con possibilità di passaggio da una funzione all'altra. Eppure uno è il giudice del processo, l'altro è una parte, uno è il controllore, l'altro è il controllato.

Forse è proprio per questa confusione di ruoli che nell'opinione pubblica i risultati dell'indagine del pm contano più della sentenza del giudice: chi è indagato oggi è considerato già colpevole, in spregio alla presunzione di innocenza, e se poi verrà assolto si dirà, come sostiene Davigo, non che è innocente, ma che è un colpevole che l'ha fatta franca. Perché è ormai invalsa la distorta opinione che la verità la accerta il pm con le sue indagini, non il giudice con la sua sentenza. Qui sta l'ineffabile efficacia persuasiva delle indagini del pm, che fanno presa più della sentenza del giudice.

E quindi dovrebbero essere i giudici per primi a volersi distinguere dal P.M. D'altronde, a differenza del regime fascista che sosteneva l'unitarietà delle carriere di giudici e P.M., peraltro assoggettando quest'ultimo al ministro di grazia e giustizia, l'articolo 111 della Costituzione esige che il giudice sia, oltre che imparziale, anche “terzo” e la terzietà implica che il giudice appartenga ad un ordinamento diverso da quello delle parti, cioè non sia un loro collega: come il difensore è disciplinato dall'ordinamento forense, anche il P.M., pur se organo pubblico, deve appartenere ad un ordinamento giudiziario diverso da quello dei giudici, una sorta di Avvocatura dello Stato, con concorso di ammissione specialistico, l'impossibilità di transitare alla funzione giudicante, un Csm diverso e uffici fisicamente distaccati da quelli del giudice.

Solo in questo modo avremo un giudice davvero “terzo”, l'attuazione dei principi costituzionali del contraddittorio e della parità delle parti e una decisione, per l'opinione pubblica, davvero imparziale, naturalmente garantendo sia al giudice sia al P.M. autonomia e indipendenza, come prescrive la Costituzione.

La separazione delle cartiere non è altro che una specializzazione tra due diverse professionalità, che esigono distinte carriere: infatti, il P.M. deve essere un abile investigatore durante le indagini, capace di coordinare la polizia giudiziaria, ed un convincente argomentatore in udienza, mentre al giudice si richiedono doti diverse di preparazione, equilibrio ed esperienza. D'altra parte, la separazione delle carriere giudicanti e requirenti esiste in molti Paesi europei. Infatti, in Germania le carriere sono separate in quasi tutto il Paese (fanno eccezione alcuni Laender, tra cui la Baviera). In Spagna, in Portogallo e in Svizzera le carriere sono separate. In Olanda è possibile transitare da una funzione all'altra solo dopo specifici corsi di specializzazione. In Francia, vista la comune matrice napoleonica, i magistrati hanno invece la possibilità di passare da una funzione all'altra, ma è in corso sul punto una accesa discussione. In Gran Bretagna i giudici delle corti superiori sono nominati direttamente dalla Corona e la pubblica accusa viene demandata a una pluralità di organismi tra cui la polizia, il Crown Prosecution Service e l'Attorney General. Negli Stati Uniti d'America è normale che un avvocato o un prosecutor, al termine di una prestigiosa carriera, diventi giudice, ma è inconcepibile che l'accusatore sia un collega del giudice.

Anche in Italia, un giudice davvero “terzo” riacquisterebbe agli occhi dell'opinione pubblica un po' della fiducia persa e le sue sentenze si vedrebbero riconosciuto quel valore preminente rispetto alle indagini, che dovrebbe essere naturale in uno Stato di diritto, ma che oggi purtroppo è ignorato.

LEONARDO FILIPPI

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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