I gravissimi problemi della giustizia restano sul tappeto, irrisolti e rinviati ancora una volta per l'incapacità del Governo di porvi rimedio. D'altra parte, non c'è da stupirsi con un ministro della giustizia che confonde il dolo con la colpa, dicendo che «quando non si riesce a dimostrare il dolo, il reato diventa colposo» e secondo il quale «gli innocenti non vanno in carcere». Il ministro Bonafede, molto imprudentemente, aveva preannunciato una “riforma epocale” della giustizia, ma la sua evidente inadeguatezza, sommata alla vena giacobina del Movimento 5 Stelle, hanno creato nell'azione di governo una situazione di stallo, dalla quale non riesce a divincolarsi.

Certamente, l'aspetto più inquietante riguarda il “blocco della prescrizione”. Forse non tutti sanno che la “riforma Orlando” prevede già la sospensione del corso della prescrizione fino a un anno e sei mesi sia in grado d'appello sia durante il giudizio in cassazione. Ma nel gennaio 2019 fu approvata la cosiddetta “legge spazzacorrotti”, la cui entrata in vigore è stata appositamente differita al primo gennaio scorso per consentire di adottare gli strumenti che assicurino una durata certa al processo. Tale legge impedisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: così, dopo che un tribunale ha pronunciato la condanna o l'assoluzione, il processo può proseguire in appello e in cassazione senza limiti di durata, all'infinito, un vero e proprio “ergastolo processuale” che lascia la vittima senza giustizia e l'imputato in perenne attesa di una sentenza definitiva.

È evidente l'incostituzionalità di una simile legge che consente che il processo possa protrarsi indefinitamente nel tempo, in contrasto con i principi costituzionali del “giusto processo” e della presunzione di innocenza dell'imputato, oltre che con le Convenzioni sovranazionali.

Su questo problema il Governo annaspa e sbanda tra le due contrapposte anime che lo compongono. Eppure la soluzione non sarebbe così difficile da escogitare: messe da parte le insensate battute di Davigo, che attribuisce i ritardi agli avvocati e al patrocinio per i non abbienti, dimenticando che il diritto di difesa, anche degli indigenti, è scritto in Costituzione, basterebbe adeguare al processo penale la regolamentazione prevista per il procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, nel quale sono previsti termini perentori di durata per ogni singola fase processuale. In particolare, nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati è prescritto che, se i termini stabiliti per le diverse fasi processuali non sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l'incolpato vi consenta e non chieda di procedere per accertare la sua innocenza (art. 15, comma 7, d. lgs. n. 109/2006). Pertanto, il procedimento disciplinare è perento se l'azione disciplinare non è promossa entro un anno dalla notizia del fatto, oppure se, entro due anni dall'inizio del procedimento, il Procuratore generale non formula l'incolpazione o non richiede la declaratoria di non luogo a procedere o ancora se la Sezione disciplinare del C.S.M. non decide in primo grado entro due anni dalla richiesta o infine se la stessa Sezione disciplinare, in sede di rinvio, non emette sentenza entro un anno dal ricevimento degli atti.

Sarebbe sufficiente calibrare tali termini al più impegnativo processo penale, ma stabilire che, superati tali termini, il processo si estingue. Non si comprende perché possa estinguersi un procedimento disciplinare e non possa estinguersi un processo penale. Bisogna mettersi in testa che la giustizia penale è una cosa troppo seria per non essere organizzata in modo efficiente e deve avere una “data di scadenza”, come e a maggior ragione dei prodotti deperibili, perché da una giustizia tardiva deriva l'inefficacia della pena (per il condannato) o la perdita della dignità (per l'assolto e per la vittima). La giustizia, cioè, si risolve in un'ingiustizia.

LEONARDO FILIPPI

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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