P rima che scoppiasse l'emergenza sanitaria del coronavirus, le previsioni di crescita del Pil dell'Italia non erano certo rosee. Secondo la Commissione Ue, con un tasso dello 0,3% quest'anno e dello 0,6 nel 2021, eravamo già considerati il fanalino di coda della crescita in Europa.

Nei giorni scorsi, la Banca d'Italia ha fatto sapere che l'emergenza sanitaria ci costerà almeno un -0,2% di crescita, il che riporterebbe quasi a zero le nuove previsioni di quest'anno. Tuttavia, è ragionevole supporre che non finisca qui, perché la situazione è in continua evoluzione a livello internazionale e l'impatto economico, come ha rilevato lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, potrebbe essere fortissimo. I mercati finanziari, infatti, stanno reagendo con ondate di vendite e crolli di borsa, che stanno cancellando i progressi realizzati negli ultimi mesi. Lo spread ha ripreso a crescere e la cedola del Btp decennale si è riportata intorno all'1%.

Il panico si sta estendendo dai listini europei a quelli degli Stati Uniti, con crolli diffusi dell'ordine del 3-4% al giorno. Arretrano le quotazioni del greggio, mentre volano i prezzi dei beni rifugio, in primis l'oro, la cui quotazione vola verso i 1.700 dollari l'oncia. Perciò, tanto meno potranno essere realizzate le previsioni più ottimistiche del Fondo monetario internazionale (Fmi) contenute nel World Economic Outlook di gennaio, secondo cui l'Italia quest'anno, se non ci fosse stata l'emergenza sanitaria, sarebbe cresciuta dello 0,5% e dello 0,7% nel 2021.

E inoltre nella previsione si sarebbe potuto mantenere questo ritmo anche nei prossimi tre anni. Si sarebbe trattato di una crescita superiore alla media degli ultimi due decenni, che comunque sarebbe risultata, anche per il Fmi, inferiore a quella di tutti gli altri paesi dell'Ue. A questo ritmo, tanto per fare un esempio, ci sarebbero voluti 25 anni solo per tornare ai livelli di reddito pro-capite del 2007, l'anno prima dell'ultima crisi finanziaria in cui l'Italia ha perso circa il 10% del suo Pil, figuriamoci adesso dopo lo scoppio dell'emergenza scatenata dall'epidemia di coronavirus sul territorio nazionale e in particolare nelle regioni più produttive del Nord.

Restano tuttavia sempre validi i suggerimenti del Fmi per superare le condizioni di stagnazione. L'auspicio è che il governo si adoperi nell'affrontare alcuni nodi storici che condizionano lo sviluppo economico del Paese. Tra questi, ne vengono sottolineati tre in particolare, tutti rivolti all'aumento della flessibilità del sistema economico: il primo prevede la rimozione delle barriere alla concorrenza, in particolare nei servizi alle persone, nelle concessioni demaniali e nei sevizi pubblici locali. Il secondo insiste per il superamento del meccanismo di contrattazione salariale accentrata a livello nazionale a favore del decentramento a livello locale. Infine, il terzo focalizza l'attenzione sulle insufficienze del settore pubblico, sostenendo che oggi più che mai sarebbe necessaria una sburocratizzazione di questo settore.

In particolare, poi, gli economisti del Fmi suggeriscono che il documento di Economia e Finanza da inviare a Bruxelles entro il prossimo mese di aprile dia garanzie non solo per la ripresa di una politica di liberalizzazioni, ma anche di affidabilità del controllo del debito pubblico, che, anche senza tenere conto dell'emergenza sanitaria, rischia comunque nei prossimi anni di restare inchiodato all'attuale livello del 135% rispetto al Pil.

Una delle cause è attribuita alla controriforma delle pensioni: quota 100 viene bocciata senza rimedio. Qualsiasi riforma pensionistica non può prescindere da due regole fondamentali: la prima è che l'età di pensionamento deve sempre essere legata alle aspettative di vita e la seconda deve far valere il principio che chi anticipa l'età di pensionamento avrà un assegno ridotto.

Gli esperti del Fmi suggeriscono anche una riforma dell'Iva, con una revisione delle aliquote all'insegna dell'equità sociale: facendo aumentare l'aliquota ordinaria del 22%, ma tenendo invariate al 10 e al 4% quelle dei beni di prima necessità e dei servizi primari, come le utenze domestiche e le opere sulla prima casa.

BENIAMINO MORO

DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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