U na delle conquiste della Rivoluzione francese fu indubbiamente il controllo popolare degli atti autoritativi dello Stato. Ciò che contribuì a superare l'ancien régime e aprire alla nostra recente storia democratica. Tra i suoi paradigmi più noti v'era l'obbligo, per i giudici, di rendere nota la motivazione delle loro decisioni, affinché tutti ne potessero prendere visione.

Che però quell'insegnamento sia ancor oggi attuale è lecito dubitare. Anzi, si è andata affermando l'idea della giustizia come Potere piuttosto che come servizio pubblico, col risultato di consegnare la valutazione dell'operato dei giudici ai soli “addetti ai lavori”. Il cittadino ne è rimasto escluso, anche se le sentenze sono rese nel nome del popolo (non dello Stato) italiano.

Oggi però l'innovazione tecnologica (soprattutto questa) consente, paradossalmente, un ritorno al passato. L'informatizzazione dei processi permette infatti di acquisire dati e questi possono essere comparati, valutati, e con essi l'efficienza del sistema giudiziario. Ma i dati non bastano. Occorre muovere verso una “cultura dei dati” e verso la consapevolezza che la giustizia è un servizio al cittadino e che quest'ultimo, per primo, deve essere messo in condizione di valutarlo.

Alcuni macrodati sono difatti ormai noti: ad esempio che spendiamo oltre 4 miliardi di euro l'anno per la giustizia, con un trend in crescita dal 2015 (+5%), e che il 78% della spesa è destinata al personale. Anche alcuni dati disaggregati sono noti: ad esempio che presso il Tribunale di Napoli il 62% dei procedimenti pendenti ha più di due anni. (...)

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