Per i più, Cnf sta per Consiglio nazionale forense, l'organo di vertice dell'avvocatura. Pochi sanno invece che questo acronimo corrisponde anche a un male atavico del nostro paese che, per quanto denunciato, raramente viene combattuto anche perché difficile è stimare i danni che produce allo sviluppo economico-sociale, alla cultura, alla vita delle persone. Anche per questo è sorto un Osservatorio ad hoc, su iniziativa di Agici-Bocconi, denominato Cnf, i costi del non fare.

Stando all'ultimo rapporto Cnf, da qui al 2017 ammonteranno a circa 470 miliardi di euro, in Italia, i costi della mancata realizzazione di opere prioritarie. L'Osservatorio li addebita a vari fattori.

C'è senz'altro il fattore Nimby (not in my backyard): l'assenza di scelte amministrative risolute, le proteste, le barricate dei comitati «contro», che dal 2012 hanno bloccato oltre 350 investimenti, di cui 222 nel solo settore energetico. Eclatante il caso del gassificatore di Brindisi, con la retromarcia di British Gas ed 800 milioni di euro persi, oltre alle più ampie ricadute occupazionali e sociali. E così tanti altri casi ampiamente descritti e commentati dall'apposito Osservatorio Nimby, costituito dall'Aris col patrocinio di alcuni ministeri.

C'è, rilevantissimo, il Cnf della burocrazia: basti ricordare le vicende di Ikea a Pisa, a Torino; o quella di Decathlon in Lombardia, o quella della cava di Camerino, terminata nei giorni scorsi, dopo 13 anni di inerzia, con la condanna del Consiglio di Stato (sentenza 4344/2013) al Comune e alla Regione Marche. Esito: il risarcimento del danno verrà pagato con le finanze pubbliche, cioè i soldi dei cittadini, compresi quelli danneggiati nel caso specifico, che finiscono quindi, pro quota, col risarcire se stessi. Insomma, miliardi di euro andati in fumo per le lungaggini, l'ostilità, l'inerzia dell'apparato burocratico, con quanto esso pesa sull'erario dello Stato.

Ci sono anche i costi della politica, che spesso (giustamente) addebitiamo all'apparato centrale. Ma guardiamo anche in casa nostra, ad esempio ai costi regionali, partendo da un dato: dal 2000 al 2010 la spesa aggregata regionale è aumentata del 74% e cuba oggi circa 120 miliardi di euro l'anno.

E la politica regionale? Se prendiamo il costo dei Consigli regionali siamo oltre il miliardo di euro l'anno. In Sardegna il (solo) Consiglio regionale costa ai contribuenti circa 85 milioni di euro l'anno, oltre 50 euro a ciascun sardo.

Siamo secondi in Italia per spesa pro capite, avanti anche a Calabria, Sicilia, Basilicata. E gli emolumenti complessivamente corrisposti a ciascun consigliere eccedono sensibilmente i 10.000 euro al mese in un'epoca in cui sono oggi in molti a togliersi la vita per le conseguenze della crisi, ivi compreso un livello di tassazione insopportabile.

Ma guardiamo, anche qui, al lato opposto della medaglia: i fatidici Cnf.

Per verificare se almeno l'attività svolta vale il costo per l'erario pubblico. Ci aiuta, questa volta il Rapporto annuale sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea .

Ecco i dati: nel 2010 il Consiglio regionale sardo ha emanato solo 16 leggi, contro le 50 della Toscana, le 34 della Basilicata, le 23 del Molise. Poiché i presidenti si sono dimessi per entrare in giunta, le commissioni consiliari Autonomia e Industria, non si sono riunite per oltre sei mesi.

I dati del 2012, reperibili sul sito online del Consiglio regionale, non sono più confortanti, con una durata media delle riunioni delle commissioni di un'ora e mezza, anche perché spesso manca il numero legale e la seduta viene subito rinviata.

Nell'ultima legislatura, tra aprile 2009 e agosto 2013, l'aula del Consiglio regionale ha lavorato in tutto 1.472 ore e 36 minuti. Se i singoli consiglieri fossero sempre presenti, considerando che per chiunque i giorni lavorativi sono circa 312 l'anno, parleremmo di circa 54 minuti lavorativi al giorno.

Quali sono, quindi, i costi del non fare? Basta guardare il deficit infrastrutturale della Sardegna, l'assenza di politiche per lo sviluppo dell'isola, il continuo prevalere di interessi particolari su quello generale.

Lo certifica laconicamente il settimo report «Generare classe dirigente» 2013 curato dalla Luiss : «...in non poche Regioni, il processo di devolution è stato interpretato come un'occasione per alimentare interessi politici, piuttosto che come un'opportunità per rafforzare l'autogoverno delle popolazioni locali».

Aldo Berlinguer
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