«Ripasso in silenzio, con la stessa emozione della prima volta, le immagini della tragedia afghana che abbiamo visto in tv e sui social. Dalla ragazza affranta che grida la sua disillusione per il nostro abbandono. “Non contiamo perché siamo nate in Afghanistan. Moriremo lentamente nella storia”. Fino al giovane che abbandona esausto l’aquilone di ferro al quale si era aggrappato come a un sogno. Mi viene da piangere». Arturo Parisi, architetto dell’Ulivo insieme a Romano Prodi, nel secondo governo del professore, è stato per due anni ministro della Difesa, tra il 2006 e il 2008. Ha seguito da vicino il dossier Afghanistan. Ora riflette «sull’enormità degli eventi» che hanno scosso, ancora una volta, il paese degli aquiloni e valuta i gravissimi errori compiuti da una coalizione internazionale «fortemente sbilanciata, uno sbilanciamento esemplificato dallo slogan “America first” a cui ci siamo purtroppo abituati».

L’orologio della storia sembra tornato indietro di 20 anni.

«L’orologio della storia non si ferma mai. Sbaglia di grosso chi pensasse che possa tornare esattamente a venti anni fa. A imparare la lezione ieri è toccato a noi. Domani toccherà di nuovo Talebani. E anche alla Cina e alla Russia che si godono oggi la sconfitta dell’America. Penso a quando scopriranno che gli smartphone che i combattenti impugnavano per immortalare come una vittoria la resa degli occidentali, possono funzionare a loro danno».

Cosa resta di una missione che doveva essere di pace?

«Azioni e omissioni. Perché questa è purtroppo la dura verità. Biden ha messo la firma conclusiva sulla catena di errori di questo ventennio, aggiungendo di suo il vergognoso atto finale. Ma ognuno ha le sue responsabilità. Sia che pensi di aver partecipato alle decisioni degli americani sull’entrata e sull’uscita dall’Afghanistan, sia che sappia di averle subite, limitandosi a prendere appunti da alleato subalterno».

Qual è stato il ruolo della Brigata Sassari in Afghanistan?

«Non si può trascurare il contributo dei sassarini. Se per un momento ci si è illusi che in terre che non hanno conosciuto altro che guerre potesse instaurarsi la pace è solo grazie alla loro presenza e alla loro azione. La Brigata è sempre stata in prima linea, si è sempre distinta per le sue capacità operative, all’altezza della sua storia gloriosa e dell’attese che si rivolgono alla “Sassari” ogni volta che interviene».

Cinquantadue militari italiani morti durante la missione, cinque di loro erano nati in Sardegna. Eroi che non possono essere dimenticati.

«Erano lì per servire il Paese. Questo è il momento di richiamarli con il loro nome ad uno ad uno ricordando che in quella area del mondo, tanto martoriata, hanno dato esecuzione ad ordini impartiti in nome della Repubblica. E non dobbiamo dimenticare i feriti che ancora conservano il triste ricordo di quello che è successo».

Lei, quando era ministro della Difesa, è stato varie volte in Afghanistan.

«A Herat in diverse occasioni ho incontrato il contingente italiano. Tutte le immagini che abbiamo visto in questi giorni in tempo reale mi hanno riportato alla mente quelle visite . Allora immaginavo che l’esito dei nostri sforzi potesse essere meno infausto. Debbo dire che si è verificato lo scenario peggiore».

Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fatto tutto il possibile per il processo di “normalizzazione”?

«In base a quello che dice Biden sembra proprio di no. Non tanto perché non è riuscito a difendere il modo sciagurato con cui siamo usciti dall’Afghanistan, ma perché non è riuscito a spiegare perché ci siamo entrati. E tuttavia l’Afghanistan che lasciamo alle nostre spalle non è più quello che abbiamo trovato. Quella reazione, resa in questi giorni impossibile dall’atteggiamento remissivo del governo di Kabul e dallo sbandamento dell’Esercito che ha atteso invano ordini, si farà presto sentire attraverso i vecchi e i nuovi alvei della società afghana».

Perché i talebani sono riusciti a conquistare il potere?

«Conquistato? Per la gran parte non lo avevano mai perso. E per la parte restante gli è stato semplicemente trasferito».

Quali sono stati i principali errori dei governi occidentali?

«Non essere riusciti a portare a sintesi il dovere di solidarietà per il fratello maggiore accecato dall’attacco alle Torri Gemelle, l’obbligo morale di verità che i fratelli minori devono a chi è alla guida, anche nelle alleanze più sbilanciate come è la Nato, e la compassione per le condizioni del popolo afghano. Lungo tutto il ventennio. Ma, ancor di più, nella fase finale quando l’America di Trump ha creato le premesse del disastro finale, trattando a Doha in solitudine con l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, senza coinvolgere né il Governo, al cui fianco eravamo in campo, né gli alleati occidentali»

Quali le ripercussioni sullo scacchiere internazionale?

«Si apre una fase nuova della storia. Si potrebbe dire che l’Oceano Atlantico si è improvvisamente allargato, e quello Pacifico si è invece ristretto. La marcia secolare verso il lontano West è sfociata nel confronto con il nuovo West oltre il Pacifico. Ora vicino. Troppo vicino».

Ma può essere considerato il fallimento dell’Occidente?

«Una sconfitta cocente che costringe le due sponde del Nord Atlantico a ridefinire i rapporti reciproci dentro l’Alleanza che, dal secondo dopoguerra, ha garantito il quadro di sicurezza per i paesi occidentali, a cominciare dal nostro. A conclusione del tragico ventennio aperto dall’11 Settembre, la sconfitta afghana ha dato la prova che chi è alla testa non vuole più guidare, e chi finora ha seguito non può più restare in una posizione di subalternità».

Massimiliano Rais

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