“Si vis pacem para bellum”, ha sostenuto (riprendendo un antico adagio latino) la Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni in occasione della Seduta al Senato in vista del Consiglio Europeo del 26 e 27 giugno, per giustificare il principio cosiddetto della deterrenza o della dissuasione.

In altre parole, il richiamo, vorrebbe motivare la pianificazione di un apparato militare comparabile in tutto e per tutto a quello di un avversario attuale ideale, come impianto regolatore di bilanciamento tra le potenze e di moderazione dei conflitti. Esiste però anche un altro, forse meno conosciuto, detto latino, riferibile a Tacito, che dice: “desertum fecerunt et pacem appellaverunt” ovvero, “hanno creato un deserto e l’hanno chiamato pace”. Insomma, a significare che per tutto esiste un risvolto della medaglia.

Parrebbe trattarsi di questione di punti di vista, di strategie di governo, cui dovrebbero seguire, tuttavia, ragionamenti inerenti i limiti e i controlimiti di ogni precisa scelta che, nella specie, potrebbero tradursi in pure e semplici questioni di sostenibilità. Neppure sarebbe corretto considerare il gradimento per l’una o l’altra posizione semplicemente in termini di schieramenti, di posizione della maggioranza di governo o della opposizione. Le differenti posizioni sulla questione potrebbero pure essere trasversali.

Il 25 giugno scorso i Paesi della Nato, trentadue in tutto, Italia compresa, si sono riuniti all’Aja nei Paesi Bassi. Nulla quaestio. Se solo non fosse che, siccome Donald Trump ha insistito nel sostenere che quegli stessi Paesi aderenti contribuiscono in misura irrisoria (per così dire) alla spesa militare rispetto agli Stati Uniti, allora, di conseguenza, dovessero trovare il modo di destinare il 5% del proprio Prodotto Interno Lordo alle spese militari. Detto e fatto, l’accordo si è trovato. Unica voce solista, il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, il quale, evidenziandosi (qualcuno potrebbe sostenere) per la sua determinazione e per la sua inclinazione alla real politik, con la propria manifestazione di dissenso, ha potuto ottenere per la Spagna una deroga. Risultato importante sia sotto il profilo economico, sia, soprattutto, dal punto di vista politico (Pedro Sanchez ha pronunciato il proprio “no” a Donald Trump) e che, tuttavia, pur in un contesto caratterizzato da una congiuntura economica particolarmente difficile, parrebbe aver attirato il disappunto degli altri Paesi dell'Alleanza.

Giusto per precisare, la destinazione, nella inedita misura percentuale del Prodotto Interno Lordo, dovrebbe essere ripartita tra spese per la difesa in senso stretto, ossia armamenti e personale (3,5%), e spese per la sicurezza, ossia infrastrutture, comprese quelle civili come porti e ferrovie (1,5%). E certamente, non sembra esistere, allo stato, una situazione di partenza, per così dire, di equilibrio tra i diversi Paesi Nato, nel senso che per alcuni, l’aumento, potrebbe non incidere in maniera determinante, per sostenere gli stessi già una spesa per la difesa piuttosto elevata (i Paesi dell’Europa dell’Est ad esempio). Per quanto concerne l’Italia, come da più parti rilevato, il bilancio nazionale è già pesantemente gravato da un debito pubblico importante e, il nuovo impegno economico si tradurrà, con buona verosimiglianza, in tagli alla spesa pubblica in settori chiave come la sanità e le politiche sociali. Forse, quella che Donald Trump, dopo il vertice all’Aja, chiama vittoria, potrebbe non esserlo per tutti gli alleati.

Lo stesso presupposto della determinazione che sottende la decisione assunta all’esito del vertice Nato, sembrerebbe apparire fallace ed illusorio: quello per cui possa considerarsi sufficiente un “semplice” (si fa per dire) aumento delle spese militari per incidere in maniera determinante sui nuovi equilibri geopolitici planetari.

Giuseppina Di Salvatore – Avvocato, Nuoro

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