Lo scorso venerdì, giorno 15 del mese di dicembre, il primo ministro ungherese Viktor Orbán avrebbe di fatto impedito il conferimento di ben cinquanta miliardi di euro di aiuti finanziari provenienti dall’Unione Europea per l’Ucraina, sollevando non poche perplessità sul sostegno prestato dall’Europa allorquando i leader del blocco hanno, per così dire, ovviato alla sua opposizione, manifestatasi come astensione, per concordare l’apertura di colloqui di adesione con Kyïv.

Stando a quando è stato possibile apprendere dai media, dal punto di vista di Orbàn, parrebbero difettare ben tre delle sette pre-condizioni utili all’avvio dei negoziati, siccome non ancora rispettate dall’Ucraina. Si tratta, in particolare, e per essere precisi, di quelle specifiche priorità inerenti la lotta alla corruzione, la riduzione della influenza degli oligarchi e la protezione delle minoranze nazionali. Del resto, la stessa raccomandazione della Commissione al Consiglio Europeo pareva essere stata quella di portare ad adozione i quadri negoziali solo dopo la “implementa (zione) di talune misure chiave”. Nulla quaestio, se solo si considera che all’interno dell’Unione, oggi come ieri, si trovano a confronto sensibilità differenti, portatrici spesse volte di interessi e finalità contrapposte su cui si dovrebbe raggiungere la più fattiva delle armonizzazioni. Ma, al di là della posizione dell’Ungheria, così decisamente espressa dal suo primo ministro Viktor Orbán, e che potrebbe financo disallineare, sullo specifico importante aspetto, i rapporti con l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri Italiano, la adesione dell’Ucraina, da un punto di vista squisitamente empirico, e anche a voler prescindere dal conflitto in corso con la Russia di Putin, quali conseguenze potrebbe avere considerandola sul piano tutt’altro che trascurabile del realismo politico e giuridico? Non sarebbe neppure necessario scomodare il proverbiale Lapalisse allorquando chiunque tra i cittadini, fosse pure indotto ad osservare che il potenziale ingresso nella Unione Europea di un Paese interessato da una guerra, e il cui territorio sembrerebbe risultare occupato dalle forze avversarie, rischierebbe di coinvolgere la stessa Unione, come pure i suoi Stati membri, in un contesto di belligeranza con ogni conseguenza del caso visto e considerato il dovere della Unione stessa di agire in difesa dei suoi Membri.

Ma, andando ancora oltre, e volendo anche solo per un attimo tralasciare siffatta tutt’altro che trascurabile circostanza, e concentrandoci sul principio stesso che sottende all’allargamento dei confini della Unione, quale dovrebbe esserne il motore propulsivo visto e considerato che ciò che dovrebbe sottendere primariamente il gigante Europeo nella sua complessità soggettiva, parrebbe essere, e dovrebbe essere, una comunione di intenti, valori ed obiettivi che non sempre può dirsi raggiungibile? Intendiamoci, nessuno potrebbe negare che l’Unione Europea sia stata a suo tempo concepita e, di poi, si sia avvicendata soprattutto come comunità economica. Se sia stato corretto siffatto agire, oppure no, probabilmente non sta ad alcuno dirlo, specie a distanza di anni e mutate le condizioni tutte. Con il senno del poi, mutatis mutandis per l’appunto, forse si potrebbe dire che sarebbe stato meglio avviare, più che una unione di carattere economico, una unione di rilievo culturale, posto che si sarebbero dovuti coalizzare gli uomini più che gli Stati propriamente considerati. Questo, probabilmente, il limite del complesso gigante europeo. Limite che a tutt’oggi sembrerebbe rappresentare l’ostacolo da saltare (aggirarlo sarebbe solo un escamotage di scarso momento).

In quell’oramai storico 7 dicembre dell’anno 2000, che pare oggi così lontano nel tempo, ma profondamente attuale nella sua consistenza valoriale, veniva presentata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui Preambolo sottolineava proprio la circostanza per cui «i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, decidevano «di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni», nel contesto del quale la persona, con tutta la sua complessità soggettiva, diveniva centro focale del proprio agire e del proprio indirizzo. Cosa è cambiato ora, se qualcosa è cambiata, rispetto ad allora? Ancora oggi forse sarebbe corretto chiedersi come mai continua a mancare qualsivoglia riferimento alle «radici cristiane» dell’Europa che ben avrebbe potuto e potrebbe rappresentare un punto di partenza non solamente sul piano squisitamente valoriale, ma anche quale presupposto nella valutazione delle potenziali richieste di adesione in vista dell’allargamento probabilmente non sempre utile.

Del resto l’Unione sarebbe tale solo nel contesto della comunanza di valori e di intenti se solo si considera che mere valutazioni di carattere economico potrebbero esistere oggi ma non domani. Nella situazione contingente poi, la priorità sembrerebbe essere strettamente ricollegata al rafforzamento della capacità della stessa Unione Europea di esprimere con concretezza la solidarietà nei confronti dei Paesi Membri più colpiti dalle vicissitudini correnti, guerre comprese. E questo nell’ottica di una Europa delle persone e per le persone, dovrebbe essere l’obiettivo costante e preminente. Probabilmente, la prossima e vicinissima tornata elettorale di rilievo europeo dovrebbe affrontare questa tematica se realmente si voglia perseguire l’obiettivo di una Unione a misura di cittadino.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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