Il 23 maggio del 1992 a Palermo fa caldo. E’ un sabato afoso che preannuncia un’estate altrettanto afosa, un giornata come tante, in cui l’unica notizia rilevante è il quindicesimo scrutinio per la scelta del presidente della Repubblica, con il Parlamento ancora in alto mare.

Alle 17.58 la radio collegata con le frequenze delle forze dell'ordine dà una notizia: c’è stata un’esplosione sull'autostrada A29, vicino allo svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine e a pochi chilometri da Palermo. Le informazioni sono poche, ma le conversazioni si fanno sempre più fitte: “C'è stato un attentato. Ci sono morti e feriti, è un inferno”. I giornalisti che arrivano sul posto, guidati dagli elicotteri e dai lampeggianti delle forze dell’ordine, si trovano davanti una scena infernale: la puzza dell’esplosivo intasa i polmoni, la polvere si può tagliare col coltello. Cinquecento chili di tritolo hanno divorato l’asfalto, aprendo una voragine di decine di metri.

Il luogo della strage (foto Ansa)
Il luogo della strage (foto Ansa)
Il luogo della strage (foto Ansa)

LA RICOSTRUZIONE – Il magistrato antimafia Giovanni Falcone da cinque giorni ha compiuto 53 anni. Come ogni fine settimana sta tornando in Sicilia da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino arriva intorno alle 17 all'aeroporto di Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Qualcuno però osserva i movimenti suoi e della scorta: è il boss Raffaele Ganci, che seguiva tutti i movimenti del poliziotto Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone.

Francesca Morvillo e Giovanni Falcone (foto Ansa)
Francesca Morvillo e Giovanni Falcone (foto Ansa)
Francesca Morvillo e Giovanni Falcone (foto Ansa)

Falcone si mette alla guida di una Fiat Croma bianca con accanto la moglie e collega Francesca Morvillo, mentre l'autista giudiziario Giuseppe Costanza si siede sul sedile posteriore. In un’altra Croma marrone si mette al volante Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella Croma azzurra ci sono Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Parte così il corteo che imbocca l'autostrada A29 in direzione Palermo: in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca e in coda la Croma azzurra.

Dietro di loro Gioacchino La Barbera si mantiene in contatto telefonico con Giovanni Brusca e Antonino Gioè (capo della Famiglia di Altofonte), appostati sulle colline sopra Capaci.

La ricostruzione dell'attentato (foto Ansa)
La ricostruzione dell'attentato (foto Ansa)
La ricostruzione dell'attentato (foto Ansa)

"Antonino Gioé mi dice: via via via. Me lo dice tre volte. Alla terza io aziono il telecomando". È Giovanni Brusca, piazzato sulla collinetta che domina Capaci, a scatenare l'inferno sull'autostrada. La carica di esplosivo preparata dall'artificiere Pietro Rampulla – 500 chili di tritolo sistemati all'interno di fustini in un cunicolo di drenaggio sotto l'autostrada – fa volare tutte le auto.

La Croma marrone viene investita in pieno e sbalzata in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo. I vigili del fuoco per liberare i corpi avranno bisogno di cesoie e fiamma ossidrica.

L’auto di Falcone finisce contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Il giudice e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono scagliati violentemente contro il parabrezza. Falcone muore dopo un'ora e sette minuti fra le braccia di Paolo Borsellino. Morvillo intorno alle 22.

Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salva miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a passare in auto sul luogo dell'eccidio. 

Trent'anni fa quello che uno degli esecutori, Gioacchino La Barbera, chiamerà "l'attentatuni" chiude i conti con l'uomo che impersona il simbolo della lotta a Cosa nostra.

I detriti (foto Ansa)
I detriti (foto Ansa)
I detriti (foto Ansa)

LA MAFIA LO VOLEVA MORTO - Giovanni Salvatore Augusto Falcone, all’epoca  direttore degli affari penali del ministero della Giustizia, era stato l’uomo in grado di scardinare quel sistema che nella corsa al potere aveva ucciso magistrati, giornalisti, investigatori, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Con l'apporto di decine di collaboratori a partire da Tommaso Buscetta, Falcone ne ha ricostruito la struttura militare e verticistica, ha individuato esecutori e mandanti della grande mattanza di Palermo, ha allargato le maglie delle relazioni tra Cosa nostra e il potere.

Giovanni Falcone (foto Ansa)
Giovanni Falcone (foto Ansa)
Giovanni Falcone (foto Ansa)

Non era solo: con Paolo Borsellino e gli altri componenti del pool di Antonino Caponnetto ha istruito il maxiprocesso e mandato a giudizio un esercito di 474 imputati. L'impianto accusatorio, irrobustito dalle rivelazioni di Buscetta e di una folla di collaboratori, regge fino in Cassazione. Ma la sentenza che decreta la sconfitta della linea sanguinaria e spietata dei vertici di Cosa nostra apre la strada alla stagione stragista. E Falcone lo sa bene: "Ora viene il peggio", dice dopo la sentenza. E infatti 57 giorni dopo Capaci toccherà a Borsellino.

I PROCESSI - Le sentenze sulla strage di Capaci hanno illuminato l'area criminale operativa e i moventi, se così si possono definire: il "sentimento di vendetta" dei vertici di Cosa nostra nei confronti di un magistrato che aveva attaccato la mafia e ne aveva demolito l'impunità storica. Il tentativo di fermarlo nel suo ultimo incarico al ministero della Giustizia. E il progetto di Totò Riina e dei suoi colonnelli di dare un carattere terroristico alla micidiale sfida allo Stato.

Totò Riina (foto Ansa)
Totò Riina (foto Ansa)
Totò Riina (foto Ansa)

Il livello operativo della strage del 23 maggio 1992 è stato colpito sin dal primo processo concluso il 26 settembre 1997 con 24 ergastoli e pene inferiori per cinque collaboratori (Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo, Calogero Ganci, Gioacchino La Barbera, Giovan Battista Ferrante). In appello si sono aggiunti altri cinque ergastoli ma dopo due annullamenti la Cassazione ha confermato la responsabilità di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Francesco e Giuseppe Madonia, Pippo Calò, Pietro Aglieri e gli altri componenti della "cupola". Prima della sentenza su Matteo Messina Denaro il 21 luglio 2020 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta aveva confermato la condanna all'ergastolo di altri quattro imputati - Salvatore "Salvino" Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello - e l'assoluzione di Vittorio Tutino.

Resta da chiarire ancora la parte svolta, prima e dopo la strage, da apparati investigativi e pezzi dello Stato che avrebbero tenuto aperto un "dialogo" con i boss in vista di una tregua. È l'idea di una "trattativa" che però non ha trovato sponda in tribunale.

Dopo trent'anni la vicenda processuale non è ancora conclusa ma è alle ultime battute.

(Unioneonline/D)

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