“Movida non più movida” per essere divenuto, quel termine così “in” negli ambienti serali spagnoli degli indimenticabili anni Ottanta, sinonimo oramai di Mala-Movida: ma per colpa di chi? Perché? Fino a quando? Si tratta della manifestazione concreta e strisciante di un disagio sociale che oramai da diversi anni parrebbe attraversare le nostre comunità, oppure è soltanto la boutade concreta e materiale di un “male di vivere” diffuso che si esprime in una “protesta” inutile quanto degradante?

Qualunque ne sia la ragione ontologica, e probabilmente poco pure interessa alla luce dei suoi effetti diretti e indiretti, di certo la comunità, ossia tutti noi, non può essere costretta, e/o non possiamo essere costretti, a vivere in un clima di precarietà costante patendone le conseguenze. Nessuno può essere costretto a tollerare il disagio altrui, se davvero di disagio si tratta. E sinceramente, considerate le forme in cui tante volte questa “mala-movida” (rectius disagio) si manifesta, può essere ben lecito dubitarne. Di fatto sembrerebbe non potersene più: da Cagliari a Torino a Milano a tutte le grandi città italiane, arrivano le segnalazioni dei cittadini per schiamazzi e abuso di sostanze alcoliche, quando non anche per circostanze ben più gravose direttamente incidenti sulla serenità dei residenti. Di certo, il carattere fortemente negativo che caratterizza un fenomeno tanto pericoloso e lesivo della quiete pubblica sembra essersi cristallizzato in manifestazioni di cosiddetta “pressione antropica” (per usare una espressione cara agli studiosi del fenomeno) gravante soprattutto su determinate porzioni di territorio, morfologicamente predisposte alla circostanza “inquinante”, nella specie i centri storici più angusti, divenuti punti critici di incontro siccome concepiti come luoghi fisici di concentrazione e/o addensazione delle masse o, meglio, del cosiddetto “Popolo della Notte” il quale, negli ultimi tempi in particolar modo, ha saputo contraddistinguersi per comportamenti antigiuridici anche di particolare gravità.

È brutto doverne parlare ed è oltremodo gravoso anche il solo dover pensare di trovarsi nella condizione di reagire, nostro malgrado, a tanto “incomodo” strutturale e non solo emergenziale: inquinamento acustico, disturbo, schiamazzi, occupazione di suolo pubblico e anche privato, mancanza di rispetto del decoro pubblico e vandalismo, risse, furti da una parte, e tutela diritti dall’altra sembrano essere divenute le parole chiave di una rappresentazione distorta di vita quotidiana serale. Intendiamoci meglio: possiamo sostenere che si tratti di un problema di “governance” inefficiente dei territori da parte delle nostre amministrazioni? Si può verosimilmente scaricare la responsabilità di un fenomeno, che pure in termini economici ha una sua incidenza consistente, sempre e solo sulla parte pubblica? Sebbene quest’ultima sia chiamata a svolgere una funzione di controllo e prevenzione, tuttavia, anche la comunità non dovrebbe esimersi dal dover fare la propria parte secondo un comportamento fattivo e collaborativo utile a garantire la migliore e più consapevole gestione del territorio nelle sue frange più critiche. Tanto più allorquando non esistano provvedimenti tipici finalizzati alla gestione strutturale del fenomeno in tutte le sue devianze abnormi. E ancor di più allorquando ci si soffermi a riflettere sulla circostanza che le pure e semplici ordinanze contingibili e urgenti assunte dai vari Comuni in caso di emergenza sanitaria e di igiene pubblica a carattere locale rappresentano una sorta di deroga ai principi di tipicità degli atti amministrativi che finiscono con l’avere una scarsa incidenza pratica.

 A doverci limitare a una elencazione dei provvedimenti adottabili, dovremmo rassegnarci ad annoverare provvedimenti come l’ordinanza contingibile e urgente specifica per l’inquinamento acustico ex art. 9 legge 447/95, oppure le ordinanze emanate in forza dell’art. 9 del TULPS (T. U. Legge di Pubblica Sicurezza di cui al r.d. n. 773/1931), oppure ancora quelle emesse per la violazione dell’art. 64 del d.lgs. n. 59/2010, rubricato “somministrazione di alimenti e bevande”. Ma al di là del dato normativo in sé e per sé considerato, è facile rendersi conto della circostanza che sul piano amministrativo “strictu sensu” considerato, gli strumenti di tutela sono assai limitati, e se pure adottati nei singoli casi verificatisi, tuttavia, sembrerebbero essersi rivelati scarsamente efficienti al governo del fenomeno siccome idonei alla produzione dei soli effetti temporanei, e pertanto, e per ciò stesso, incapaci di apportare  modifiche alla disciplina vigente sospendendone unicamente l’applicazione.

Non è chi davvero non veda l’inconsistenza giuridica della natura di un potenziale intervento in tal senso che, peraltro, lo stesso Organo Comunale è chiamato a revocare nel momento in cui venga a cessare lo stato di pericolo. Ma se la Pubblica Amministrazione parrebbe avere tutto sommato le “mani” legate per il carattere poco incidente del suo potere di intervento, allora i cittadini quali strumenti avrebbero a loro disposizione per il contrasto di un fenomeno tanto becero? Possono pensare di intraprendere una causa? Contro chi? Contro il Comune per ottenerne la condanna alla assunzione dei provvedimenti meglio ritenuti utili per risolvere il problema? Probabilmente no, perché quand’anche si riuscisse nell’intento poi, all’esito, l’amministrazione potrebbe dare seguito alla condanna solo attraverso l’emissione di quei provvedimenti che, in vario modo, e per le ragioni anzidette, non avrebbero forza incidente. Almeno non sul piano della gestione strutturale del problema.

Detto altrimenti: a parte il fatto che il cittadino, per difendersi nel giusto, sarebbe chiamato ad anticipare i costi di un giudizio spesso di una certa durata, se anche l’ente proprietario della strada da cui provengano le immissioni denunciate, ad esempio, dovesse essere condannato all’adozione delle misure idonee a far cessare dette immissioni, tuttavia, quella condanna avrebbe valore e rilievo nella sola singola situazione denunciata.

La verità sembra essere una e una soltanto e balza agli occhi di tutti: l’assenza di politiche legislative consapevoli e strutturali, adeguate e coerenti alle esigenze dei territori troppo spesso lasciati al loro destino per l’incapacità, e/o contestuale mancanza di forza interveniente, probabilmente, degli organi amministrativi e di polizia. Occorre un contributo senza dubbio sinergico tra operatori del diritto e organi della Pubblica Amministrazione, e cittadinanza tutta, per tentare di supplire agli innumerevoli vuoti normativi che, nonostante la iper-attività normativa che ha sempre caratterizzato il Paese, ancora siamo costretti a subire. È doveroso rinvenire soluzioni quanto più soddisfacenti e utili per tutte le parti interessate, le quali, indiscutibilmente, devono trovare la corretta misura della tutela nel loro diritto alla salute ed al riposo. Queste ultime esigenze devono necessariamente rinvenire una tutela privilegiata sovrastante le esigenze ludiche della popolazione della notte e gli interessi economici di taluni operatori commerciali del settore, tante volte (con le dovute eccezioni chiaramente) fin troppo spregiudicati nella gestione delle circostanze “inquinanti”.

Parola d’ordine dunque deve essere solo quella diretta all’individuazione di una normativa ad hoc che conferisca ad Amministrazioni e Forze dell’Ordine il potere di intervenire con effetto immediato e definitivo nel contrasto al fenomeno “mala-movida”, magari attraverso la redazione di una norma penale specifica.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato – Nuoro)

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