Ha lavorato per anni in una Asl romana con due colleghi fumatori accaniti e per questo si è ammalato di tumore.

La Cassazione ha riconosciuto il collegamento diretto tra il fumo passivo e lo sviluppo del cancro: per questo gli eredi dell'uomo hanno diritto a un maxi risarcimento, anche se quando l'impiegato si è ammalato non era ancora in vigore il divieto assoluto di fumo nei locali pubblici introdotto dalla legge Sirchia.

I giudici d'Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, avevano ritenuto che l'ufficio dove l'impiegato aveva lavorato, era "insalubre" e che questo aveva portato all'insorgenza del tumore e, due anni dopo, alla morte, nel 2002, "non solo a causa del fumo passivo, ma anche per le ridotte dimensioni" della stanza, dove lavoravano altri due dipendenti, entrambi fumatori.

L'azienda ha provato, col suo ricorso in Cassazione, a contestare che quando il fatto si è verificato le conoscenze scientifiche non erano tali "mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cosiddetto fumo passivo" e che erano state attuate tutte le cautele necessarie secondo le norme vigenti all'epoca, visto che solo nel 2003 la legge Sirchia ha imposto il "divieto assoluto" di fumo nei locali chiusi.

La sezione Lavoro della Cassazione ha spiegato, invece, che è comunque dovere del datore di lavoro adottare "misure di prudenza e diligenza" e "le cautele necessarie".

In questo caso, "non può dubitarsi della correttezza delle argomentazioni", sulla "azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento delle attività lavorativa senza rischi per la salute", "al di là della introduzione di specifiche norme sui divieti di fumo", visto che "doveva ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi".

(Unioneonline/F)
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