Di lui negli ultimi trent’anni non si era più avuta alcuna notizia: fra i latitanti più temuti al mondo, presenza fissa nell’elenco del Viminale sui ricercati di massima pericolosità, capo del mandamento di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro è considerato dagli investigatori uno dei capi assoluti di Cosa nostra.

Nato proprio a Castelvetrano nel 1962, ebbe come padrino di cresima Antonino Marotta, ex affiliato alla banda di Salvatore Giuliano. Soprannominato “U siccu”, il magro, o anche “Diabolik”, Messina Denaro, che a vent’anni era già il pupillo di Totò Riina, avrebbe iniziato la scalata criminale nel 1989, con la denuncia per associazione mafiosa per la partecipazione alla faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna.

Due anni dopo l’assassinio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina, “reo” di essersi lamentato con una sua impiegata, all’epoca amante di Messina Denaro, di «quei mafiosetti sempre tra i piedi».

Il primo a scrivere il nome del boss in un fascicolo d’indagine è Paolo Borsellino, nel 1989. Nel 1992 Messina Denaro fa parte del commando composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere un attentato nei confronti di Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli. Nel luglio 1992, è tra gli esecutori dell’omicidio di Vincenzo Milazzo, capo della cosca di Alcamo. Pochi giorni dopo, strangola con le sue mani la compagna del boss, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi. Nel 1993 è uno dei mandanti del sequestro del dodicenne Giuseppe Di Matteo, nel tentativo di impedire che il padre, Santino Di Matteo, ex-mafioso, collabori con gli inquirenti che stanno indagando sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo viene strangolato e il cadavere viene sciolto nell’acido.

Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, fra i sequestratori, avrebbe dichiarato poi che al ragazzo lui e gli altri sequestratori si sarebbero presentati travestiti da poliziotti della Dia, raccontandogli che lo avrebbero portato dal padre, che in quel periodo era sotto protezione lontano dalla Sicilia. «Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi - le parole di Spatuzza - Lui era felice, diceva: Papà mio, amore mio».

La latitanza del boss di Cosa nostra inizia nell’agosto del 1993, nel pieno degli attentati dinamitardi che sconvolgono l’Italia. Messina Denaro, mandante di quelle stragi insieme a Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, è allora in vacanza a Forte dei Marmi. Da quel momento di lui non si saprà più nulla.

Nel 1998, dopo la morte del padre Francesco, diventa capomandamento di Castelvetrano e rappresentante della provincia di Trapani in Cosa nostra.
Fra i racconti legati alla vita di Messina Denaro, alcuni sostengono si sia anche sottoposto a un intervento di chirurgia plastica al volto per non essere riconoscibile, altri dicono che si sia fatto rimodellare anche i polpastrelli, per cancellare le impronte digitali. 

Proprio di recente un informatore aveva spiegato come il boss fosse stato segnato da gravi problemi di salute e fosse costretto alla dialisi.

Oggi la notizia dell’arresto, in una clinica privata di Palermo.

(Unioneonline/v.l.)

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