"Ci fu un pestaggio ma non fu così violento: Stefano Cucchi non è morto per i ceffoni o pugni ma per colpa delle omissioni e negligenze dei medici".

È la tesi sostenuta oggi in aula dall'avvocato Antonella De Benedictis, difensore del carabiniere Alessio Di Bernardo, nel corso del processo di Appello che vede imputato il militare di omicidio preterintenzionale per il pestaggio del geometra romano morto nel 2009.

Per Di Bernardo il pg Roberto Cavallone ha chiesto una condanna a 13 anni di carcere così come per Raffaele D'Alessandro (in primo grado condannati a 12 anni), e a 4 anni e 6 mesi per il maresciallo Roberto Mandolini (3 anni e sei in primo grado), accusato di falso.

Chiesta, invece, l'assoluzione per Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto luce su quanto avvenuto nella caserma Casilina la notte dell'arresto.

"Nessuno nega che ci sia stato un pestaggio - ha affermato la penalista - ma non è stato così violento. Cucchi non è stato ucciso per i ceffoni o pugni ma le persone che lo hanno lasciato morire sono stati i medici attraverso negligenze e omissioni, chi ha sbagliato ha pagato penalmente e civilmente con un risarcimento".

Secondo l'accusa, il pestaggio in caserma di Cucchi avvenne la sera tra il 15 e il 16 ottobre del 2009, dopo che il giovane era stato arrestato per detenzione di stupefacenti. Il trentenne morì sei giorni dopo mentre si trovava ricoverato all'ospedale Sandro Pertini.

"Dire che Di Bernardo lo ha massacrato di botte non è giusto - ha aggiunto il difensore -. Ci sono stati degli schiaffi e forse una spinta che ha fatto cadere Cucchi. Ha sbagliato chi lo ha fatto e deve pagare, ma non è stato un violento pestaggio. Di Bernardo è una brava persona, un padre di famiglia, un carabiniere pluridecorato: nessuno ha ucciso di botte Cucchi".

Nel corso della sua requisitoria, il 15 gennaio scorso, il pg aveva affermato che in questa "storia abbiamo perso tutti. Nessuno ha fatto una bella figura. Credo che nel nostro lavoro serva più attenzione per le persone, piuttosto che per le carte che abbiamo davanti. Dietro le carte c'è la vita delle persone - aveva detto Cavallone -. Quanta violenza siamo disposti a nascondere ai nostri occhi da parte dello Stato senza farci problemi di coscienza? Quanto è giustificabile l'uso della forza in certe condizioni? Noi dobbiamo essere diversi, noi siamo addestrati a resistere alle provocazioni, alle situazioni di rischio". La sentenza nel processo di appello è attesa per il mese di maggio.

(Unioneonline/F)

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